Italiano
Il fenomeno Verdi
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Il fenomeno Verdi
Dai teatri d’opera alla pubblicità della pizza. La musica di Verdi è arrivata in ogni sfera della nostra vita come simbolo di autentica italianità.
Autore: Antonella Manca

Una coppia di innamorati a cena. I due sorridono, si guardano e ammiccano maliziosamente l’un l’altra. Se siano sposati o amanti in una fuga romantica, non ha poi grande importanza. I due mangiano una pizza e sorseggiano un bicchiere di vino, mentre si lanciano sguardi, ardenti di desiderio e divertiti insieme. In sottofondo una famosa melodia.

Poco importa che queste parole, scritte da Francesco Maria Piave, siano davvero poco lusinghiere nei confronti del genere femminile, descritto come volubile, inaffidabile e infedele. E poco importa, ancora, che questa musica sia stata scritta da Giuseppe Verdi nel Rigoletto come esempio di canzone da osteria da dedicare alla sorella di Sparafucile, solita allietare i clienti della sua locanda con piatti prelibati, vino, liquori e altro tipo di favori... Per l’azienda che negli anni Novanta aveva finanziato questo spot televisivo per pubblicizzare la sua pizza surgelata in Italia e in Europa, La donna è mobile era la colonna sonora perfetta, tanto che venne riadoperata come jingle ancora per tanti anni. Cambia l’ambientazione, le capigliature e i vestiti si adattano al mutare della moda, ma loro sono sempre lì: la coppia elegante, il vino, la pizza e, soprattutto, quella celebre melodia. 

L’accostamento tra pizza e musica di Verdi può forse sembrare azzardato, magari banale e di certo fa l’occhiolino al tanto usato stereotipo del popolo italiano passionale, amante della musica e del buon cibo. Ma la trovata di marketing è davvero di grande efficacia, proprio grazie alla scelta musicale. La donna è mobile era la colonna sonora perfetta non solo perché, essendo arcinota alle orecchie dei telespettatori, si imprimeva facilmente nella loro memoria insieme alle immagini di quella cena – e di quella pizza – così ricca di aspettative. La donna è mobile era perfetta anche perché creava un’associazione tra due simboli dell’italianità nel mondo: l’opera lirica e la cucina, qui rappresentati da Giuseppe Verdi e la pizza. 

Ma come mai proprio Giuseppe Verdi? La strada che dai teatri d’opera ottocenteschi porta a uno spot pubblicitario alle soglie del Duemila è piuttosto lunga. È una strada che inizia nei teatri e passa per i salotti, le piazze e perfino le stalle degli italiani. È una strada che percorre fiumi di carte, foto, dischi, banconote e scatolette di fiammiferi. È una strada che a volte si perde tra falsi miti e racconti fantasiosi. Ma è una strada, anche, che racconta la storia dell’opera e che racconta come l’immagine di Verdi l’abbia dominata per un secolo, diventando una vera e propria icona per gli appassionati e non solo, diventando un fenomeno popolare.

La fama del compositore inizia ben prima del nostro spot. Inizia ancora prima di quando, negli anni Sessanta, lo Stato italiano fece stampare il volto di Verdi sulla banconota delle mille lire – la vecchia moneta italiana – consacrando così ufficialmente la sua immagine come simbolo nazionale. E la sua fama era già ampiamente consolidata quando nel 1913 – anno delle celebrazioni per il centenario della nascita del compositore –, il pellegrinaggio che dalla sua casa natale a Busseto portava alla sua tenuta di Roncole, divenne soggetto per il film Giuseppe Verdi nella vita e nella gloria. A dire il vero, questo non era neanche il primo esperimento cinematografico ispirato a Verdi. Le cronache ci raccontano infatti di come nel Novecento si diffusero nelle prime sale di proiezione dei brevi film basati sulle trame delle sue opere più celebri, scelte proprio perché facilmente comprensibili dal pubblico che in Italia, a quei tempi, era per lo più analfabeta e quindi non poteva comprendere le didascalie che nei film muti venivano proiettate per spiegare l’azione sullo schermo. Quando il Ministero della cultura fascista celebrava negli anni Quaranta il mito di Verdi come genio italiano, come compositore contadino – che poi, in fondo, proprio contadino non era – Verdi era già il fenomeno Verdi.

Italian banknote worth 1000 Liras, with the portrait of Giuseppe Verdi, musician. In the center in the red stamp the head of Medusa. Banknote in use around 1960-1965.
Italian banknote worth 1000 Liras, with the portrait of Giuseppe Verdi, musician. In the center in the red stamp the head of Medusa. Banknote in use around 1960-1965.

La popolarità di Verdi comincia col folgorante successo del Nabucco:

Quella notte Milano non dormì, il giorno dopo il nuovo capolavoro era argomento di tutti i discorsi. Il Verdi sulle bocche di tutti; perfino la moda, perfino la cucina gli toglievano in prestito il nome, facendosi i cappelli alla Verdi, gli scialli alla Verdi, gli intingoli alla Verdi […]

scriveva un cronista nel 1843.1

Un anno dopo, con l’Ernani, l’ammirazione per il Maestro e la sua opera arrivava a toccare il fanatismo, al punto che portare il cappello ispirato al costume di scena del bandito protagonista dell’opera era una vera e propria moda. Anzi, potremmo dire che Ernani era diventata quasi un’ossessione, tanto che sulle colonne di un giornale toscano, il Ricoglitore fiorentino, ancora due anni dopo la prima, si leggeva:

Io ve lo dico in un orecchio, ma sono un po’ stufo di quest’Ernani. Andate alla Pergola, si canta l’Ernani, andate in Piazza Vecchia, si fa l’Ernani, per riposare l’udito fuggite al Teatro di prosa ma ecco l’orchestra fra un atto e l’altro vi strapazza l’inevitabile Ernani. […] Perché quest’opera trovasi tradotta per qualsivoglia strumento, dall’oficleide all’ottavino, dal contrabbasso alla viola.2

L’Ernani, in effetti, è la prima opera del compositore a suscitare tanto fervore nel pubblico: d’ora in avanti, Verdi continua a raccogliere successi, superando anche gli esordi difficili di alcune sue opere, come la première della Traviata a Venezia nel 1853. I resoconti sui giornali delle rappresentazioni delle opere del Maestro riportano frequenti episodi di esaltazione come quelli appena letti. Nel 1879, la sua popolarità fa guadagnare a Verdi la copertina del Vanity Fair come Man of the Day e in Italia, nel frattempo, le sue opere cominciano a entrare nell’immaginario popolare. Antonio Gramsci, intellettuale italiano antifascista, definirà nei suoi Quaderni dal carcere questo tipo di fanatismo come "malattia melodrammatica"3 e paragonerà le opere verdiane al romanzo nazional-popolare. 

Jack Vartoogian Spanish tenor Placido Domingo (as 'Don Carlo, King of Spain') performs during the final dress rehearsal prior to the season premiere of the Metropolitan Opera/Pier Luigi Samaritani production of 'Ernani' (by Giuseppe Verdi, 1844) at the Metropolitan Opera House at Lincoln Center, New York, New York, March 17, 2015. It was Domingo's 146th role, and his first as the baritone role of Don Carlo.
Jack Vartoogian Spanish tenor Placido Domingo (as 'Don Carlo, King of Spain') performs during the final dress rehearsal prior to the season premiere of the Metropolitan Opera/Pier Luigi Samaritani production of 'Ernani' (by Giuseppe Verdi, 1844) at the Metropolitan Opera House at Lincoln Center, New York, New York, March 17, 2015. It was Domingo's 146th role, and his first as the baritone role of Don Carlo.

Un termometro interessante per capire quanto capillarmente diffusa fosse la Verdi-mania tra la popolazione è la lettura dei registri dell’anagrafe dei comuni italiani, dove, dalla metà dell’Ottocento, cominciano a comparire nomi ispirati ai protagonisti delle opere verdiane. Negli elenchi dei nuovi nati troviamo Ernani, Alfredo, Aida, Desdemona e perfino un Rigoletto! Se poi andassimo a controllare meglio questi registri, scopriremmo che a scegliere questi nomi per i loro figli sono spesso artigiani, operai e contadini. L’Ottocento stava diventando quindi il “secolo verdiano” non soltanto per gli assidui frequentatori del mondo teatrale, i critici e i letterati, ma anche per chi in quei teatri non metteva piede, mai o quasi mai.

Contrariamente da quanto si è soliti pensare, infatti, lo spettacolo operistico non è affatto uno spettacolo popolare, almeno non lo era nell’Ottocento. I nobili o comunque le famiglie più facoltose possedevano i palchi, in platea stavano spesso i soldati, nei loggioni trovavano spazio impiegati e studenti, che avevano però una condizione economica ben diversa da contadini, artigiani e operai. Le persone appartenenti al ceto popolare presenti in teatro erano servi e camerieri, generalmente intenti a preparare i pasti da servire agli aristocratici sul palco, e che quindi non avevano tempo e modo di seguire lo spettacolo. Certo, nell’entrare in un teatro italiano Ottocentesco, concepito più come luogo di incontro che come tempio della cultura, uno spettatore contemporaneo rimarrebbe assai colpito dalla sua diversità rispetto a quello attuale. A colpirlo, però, non sarebbe affatto la presenza popolare, quanto le luci, i rumori e gli odori che generalmente accompagnavano gli spettacoli. Ma allora perché anche individui dei ceti popolari scelsero i nomi dei nuovi beniamini dell’opera per i loro figli? Come si diffondono le storie del bandito aragonese, del nobile Alfredo, della principessa Aida, dell’innocente Desdemona e dello sfortunato Rigoletto? Soprattutto, come si diffonde la musica di Verdi fuori dai teatri?

Pur essendo, come abbiamo visto, un luogo elitario, il teatro aveva dei muri – per così dire – assai più fini e permeabili di adesso. Lo spettacolo operistico, troppo costoso e ingombrante, non poteva – almeno all’epoca – essere riprodotto al di fuori dei teatri, ma ciò non significa che stralci di quello spettacolo, più o meno modificati, non potessero assumere una forma indipendente e prendere così nuova vita. La musica che si faceva entro quelle mura circolava quindi ampiamente al di fuori dal teatro, ma con un aspetto e una funzione molto diversa dall’originale. La musica di Verdi, insomma, viaggiava.

A portarla con sé nei propri viaggi, dentro e fuori i teatri, erano spesso le stesse maestranze teatrali e, soprattutto, i coristi che a differenza dei cantanti non erano sempre dei professionisti e quasi mai facevano parte del personale stabile di un teatro. Quando dunque un impresario arrivava in una nuova città con la sua compagnia per preparare l’allestimento di una nuova opera, specie se si trovava in un centro piccolo, era costretto di frequente a dover cercare persone da arruolare nel coro anche tra i non professionisti. In questi casi, il miglior luogo in cui cercare erano quindi quei piccoli gruppi corali che animavano la vita musicale di ogni piccola città o villaggio d’Italia, cantando messa o animando feste paesane e altri momenti sociali della comunità. Erano persone abituate a far musica insieme e, anche se molti di loro potevano essere addirittura analfabeti, erano capaci di memorizzare velocemente le parole. L’effetto sul palco, delle volte, poteva essere sgangherato, ma consentiva all’impresario di turno – che aveva già speso parecchio per pagare compositore, librettista, editore, solisti, orchestrali, costumi e scenografie – di contenere i costi. Una volta imparati testo e musica, i cori delle opere entravano così all’interno dei circuiti esecutivi di questi piccoli ensemble, che arricchivano le loro esibizioni con le ultime novità teatrali – quelle più in voga, naturalmente – che i coristi più bravi avevano imparato durante la stagione teatrale e avevano insegnato ai loro compagni. Nelle realtà cittadine queste piccole esecuzioni potevano avere addirittura dei luoghi appositamente dedicati: le tampe [‘tampa’ è un termine regionale piemontese che significa ‘buca’, ‘fossa’, e per estensione ‘bettola’], equivalente più umile dei cafè chantant tanto in voga tra Otto e Novecento, dove soprattutto gli operai si rifugiavano in cerca di svago dopo una lunga giornata di lavoro. Nelle piazze polverose dei paesi o sui palcoscenici artigianalmente allestiti in questi ritrovi cittadini, le melodie di Verdi, insieme ad altre arie o cori operistici, si cantavano accanto a canti popolari o a quelle canzonette di intrattenimento che i primi apparecchi radiofonici cominciavano a diffondere. Nel mezzo di questi spettacoli eterogenei, non era importante che i brani di una singola opera fossero cantati in ordine o separati dal resto del repertorio. Anzi, talvolta non era neanche necessario che queste arie e questi cori fossero cantati effettivamente con le stesse parole degli originali. Le modifiche potevano non essere intenzionali, ma nascere perché qualcosa in quel processo di trasmissione di bocca in bocca, da orecchio a orecchio poteva essersi inceppato, o per dimenticanza o per un banale errore di comprensione. Alle volte però, soprattutto per i cori, le modifiche erano invece volute e le melodie più popolari del famosissimo Verdi finivano con l’accompagnare un nuovo testo, magari con intento parodico, come una celebre versione dell’Aida rappresentata dai contadini nelle stalle del nord Italia durante il fascismo per parodiare la campagna imperialista in Africa voluta dal regime. O magari potevano diventare un canto di protesta, come l’Inno al Primo Maggio

24 April 2019, Thuringia, Erfurt: The soloists and the opera choir rehearse a scene from Giuseppe Verdi's opera "Aida" on the stage of the Theater Erfurt. The production by Andre Heller-Lopes will premiere on 27 April 2019. It is the penultimate production of the current season of the Erfurt Theatre. Photo: Martin Schutt/dpa-Zentralbild/dpa (Photo by Martin Schutt/picture alliance via Getty Images)
24 April 2019, Thuringia, Erfurt: The soloists and the opera choir rehearse a scene from Giuseppe Verdi's opera "Aida" on the stage of the Theater Erfurt. The production by Andre Heller-Lopes will premiere on 27 April 2019. It is the penultimate production of the current season of the Erfurt Theatre. Photo: Martin Schutt/dpa-Zentralbild/dpa (Photo by Martin Schutt/picture alliance via Getty Images)

Ma la musica di Verdi, al di fuori del teatro, circolava soprattutto attraverso la carta e la gran mole di stampe con cui gli editori come Ricordi inondavano il mercato. A essere stampate, però, non erano le opere integrali, che l’editore in Italia faceva circolare soltanto attraverso il noleggio delle parti manoscritte, in modo da non perdere il dominio del mercato musicale. Alle stampe, invece, venivano dati i numeri favoriti, quegli estratti cioè di Arie e Duetti più noti, riadattati per canto e pianoforte. In questo modo, i brani più celebri dell’opera erano pronti al consumo domestico e salottiero delle famiglie dell’alta borghesia e dell’aristocrazia, dove un pianoforte – e una signorina in grado di suonarlo – non mancavano mai. Nessun problema, poi, se in quei salotti non c’era un giovane capace di toccare le vette raggiunte dal celeberrimo Carlo Baucardè, il primo Manrico, che aveva introdotto il famigerato “do di petto” nell’aria Di quella pira del Trovatore: l’editore offriva al suo pubblico salottiero anche delle versioni semplificate. E poiché in questo genere di occasioni sociali ad animare l’atmosfera non era solo il canto, ma anche la danza, l’editore preparava inoltre trascrizioni per pianoforte solo – o accompagnato da qualsiasi altro tipo di strumento – per i ballabili:

Come in Libiamo i calici nella Traviata o come in Si levi il calice in Macbeth, spesso la musica stessa di Verdi si prestava già a questo tipo di esecuzioni, più o meno raffinate. Ma nulla poteva impedire all’editore di trovare un compositore o un trascrittore che modificasse estratti dell’opera per tale scopo.

E se l’esigenza era invece quella di poter avere sul leggio del proprio strumento uno spartito che permettesse di fare sfoggio del proprio virtuosismo, facendo però ascoltare allo stesso tempo le melodie più famose del Maestro di Busseto, ecco che, ancora una volta, un uomo accorto come Giulio Ricordi poteva fare affidamento su una schiera di compositori e trascrittori. I fogli di musica che in quegli anni venivano commercializzati con titoli del genere Fantasia, Divertimenti, Pot-pourri, Reminiscenze, Parafrasi su La Traviata, a esempio, non erano in realtà di Verdi, ma ispirati ad una sua opera di cui riportavano, in forma variata, i temi delle melodie più famose:

Il nome di Verdi, però, compariva sempre in grande sulle prime pagine di musica, i frontespizi e le copertine che tenevano insieme le raccolte di questi piccoli tesori musicali, saccheggiati dal teatro d’opera e portati nei salotti italiani e stranieri. Il nome di Verdi era la garanzia per assicurare il successo di vendita. 

Nella stessa ottica commerciale, le case editrici producevano a partire dalle opere di Verdi anche un altro genere di materiale musicale, pensato però per ben altre occasioni sociali: le trascrizioni per banda. Spesso a procurarsi queste trascrizioni erano gli stessi maestri di banda, musicisti, magari attivi in teatro e che fuori dalla stagione avevano bisogno di un’entrata economica, oppure compositori poco fortunati. Ma a fornire le trascrizioni erano spesso gli editori stessi che avevano capito l’enorme potenziale commerciale della banda, che anche fuori dai teatri poteva far ascoltare a migliaia di persone le opere più in voga del momento: 

Marce come questa sui temi dell’Ernani, ballabili e trascrizioni di sinfonie e numeri d’opera erano infatti il repertorio di queste formazioni musicali che, proprio nel corso dell’Ottocento, avevano cominciato a moltiplicarsi e a permeare la vita musicale cittadina, anche dei piccoli centri, coinvolgendo lavoratori – quasi esclusivamente uomini – anche delle classi meno abbienti. La banda era per queste persone un luogo di ritrovo in cui recarsi dopo le fatiche della giornata, ma anche un luogo di educazione, dove si imparava a suonare uno strumento e a suonarlo in un gruppo. Non importava se tutti nella banda non erano capaci di grandi virtuosismi: la sua struttura consentiva anche ai meno talentuosi di partecipare a quello che era, prima di tutto, un momento di socialità collettiva, sia per i musicisti stessi, sia per il pubblico accorso ad ascoltarli su strade e piazze. Nei primi anni dell’Unità d’Italia, la banda diventava quindi uno strumento per insegnare al popolo inni e canzoni patriottiche, assieme alle più celebri melodie del maggiore musicista italiano vivente: Giuseppe Verdi, tanto più che questi negli ultimi anni aveva raggiunto una tale notorietà da essere assunto a simbolo nazionale. 

Soprannominato “Papà dei cori” o “Vate del Risorgimento”, il compositore è stato considerato alla stregua di un eroe nazionale. Verdi era colui che con la sua musica aveva saputo portare sulle scene dei teatri il dolore di un popolo che viveva sotto la dominazione straniera; Verdi era colui che aveva saputo risvegliare sentimenti patriottici nel cuore dei suoi spettatori, in quel percorso storico di unificazione italiana che prende il nome di Risorgimento. La sua nomina come senatore di quello che allora era il Regno d’Italia non ha fatto altro che rafforzare questa sua immagine, nonostante il Senatore Giuseppe Verdi fosse un grande assenteista e, per sua stessa ammissione, "un minchione in politica".4 Ancora alla riapertura della Scala di Milano dopo la ristrutturazione fatta per riparare i danni fatti dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il primo pezzo suonato dall’orchestra – diretta da un altro fenomeno italiano, Arturo Toscanini – fu proprio un coro di Verdi: il Và pensiero

Keystone Features April 1946: La Scala, the famous Milan opera house as it appeared from August 1943 until recently when restoration started. Toscanini is to open the newly restored building.
Keystone Features April 1946: La Scala, the famous Milan opera house as it appeared from August 1943 until recently when restoration started. Toscanini is to open the newly restored building.

In realtà né il Nabucco da cui è stato tratto questo celebre coro, né le altre opere generalmente indicate come patriottiche, come Ernani, Il Trovatore, Giovanna d’Arco, Attila o Les Vespres Siciliennes sono state scritte da Verdi per suscitare sentimenti patriottici nel suo pubblico. Questo non vuol dire che il compositore non nutrisse dei sentimenti patriottici e non fosse uno strenuo sostenitore della causa unitaria: lo dimostrano le sue lettere e lo dimostra una sua opera, scritta su libretto di Salvatore Cammarano e rappresentata a Roma all’indomani dei moti rivoluzionari del 1848: La battaglia di Legnano

Questa sì, è un’opera intrisa di sentimento patriottico e le parole del suo coro ne sono una dimostrazione chiara, l’unica così chiara in tutto il repertorio di Verdi: 

Viva Italia! un sacro patto
tutti stringe i figli suoi:
esso alfin di tanti ha fatto
un sol popolo d’eroi!

Se però, fatta quest’unica eccezione, le opere di Verdi non possono dirsi veramente patriottiche, molto più complicata è la faccenda di tutti quegli stralci, frammenti e pezzi delle sue opere che, una volta staccati dal contesto esecutivo teatrale, avevano circolato in forma autonoma fuori dai teatri. O trasmesse dalla memoria dei coristi amatoriali, o offerte sul mercato editoriale in forma di pezzi da salotto e trascrizioni bandistiche, queste melodie avevano finito col perdere il significato originario per caricarsi di uno nuovo. Immagini come quelle immortalate dalla cinepresa di Visconti, che in Senso inscena una manifestazione patriottica contro l’occupazione austriaca durante una rappresentazione del Trovatore alla Fenice di Venezia, sono forse non poi così lontane dalla realtà. Del resto, i giornali dell’epoca raccontano di manifestazioni simili durante le rappresentazioni teatrali, tanto che la polizia austriaca si era vista costretta ad aumentare la presenza dei soldati in teatro durante gli anni del Risorgimento. Quegli stessi pezzi operistici che avevano vissuto di vita autonoma fuori dai teatri, alle orecchie degli spettatori suonavano ora arricchiti di nuovi contenuti. Ma tali contenuti e tali manifestazioni non furono certo voluti dal compositore.

Verdi, da parte sua, non negò e non confermò mai un coinvolgimento in tal senso. Ma la circolazione delle sue musiche, anche in queste forme, non faceva che aumentare la sua popolarità. Certo per il compositore era particolarmente importante che le sue opere venissero rappresentate come da lui erano state scritte e sono famosissime le liti con cantanti e direttori d’orchestra perché colpevoli di non aver rispettato quanto da lui messo in partitura. Ma la verità è che Giuseppe Verdi, per quanto fosse attento ai più piccoli dettagli della messa in scena, aveva assai poco controllo su quei pezzi staccati che circolavano autonomamente e su quelle trascrizioni per pianoforte o altri strumenti che non era nemmeno lui a comporre. L’editore, dall’altra parte, non poteva che essere felice di tanta vitalità sul mercato di questi pezzi, che facevano aumentare esponenzialmente le sue entrate e a cui reagiva, di conseguenza, stampando nuove trascrizioni, nuove fantasie, nuovi pot-pourri. Prima ancora dell’avvento delle registrazioni era proprio la circolazione di questi fogli di musica il modo per far ascoltare a un amplissimo pubblico le celebri melodie verdiane e, in fondo, era questo un modo per fare pubblicità alle opere stesse.

Quando a fine secolo si prepararono le rappresentazioni delle sue due ultime opere, Falstaff e Otello, la pubblicità organizzata da Giulio Ricordi cambia ancora: è incentrata proprio sull’immagine dello stesso Verdi, garanzia di successo e di grande qualità dello spettacolo. Sulla spinta di questa iniziativa di Ricordi, il volto del compositore comincia, ai primi del Novecento, a essere stampato ovunque: tutti, dai produttori di zucchero a quelli di fiammiferi, volevano la figura del "paesano di Roncole"5 per pubblicizzare i loro prodotti. L’immagine di Verdi non era più solo un feticcio degli appassionati d’opera, ma una vera e propria icona. Poco importava che lo zucchero o i fiammiferi, proprio come la pizza del nostro spot, non avessero nulla a che fare con la sua musica e le sue parole. La musica di Verdi e la sua stessa immagine, nel circolare fuori dai teatri, aveva quasi perso il suo significato originario ed era ora simbolo di italianità.


1 M. Lessona, Volere è potere, Barbera, Firenze, 1869, p. 299.
2 "Ricoglitore fiorentino", ottobre 1846, cit. in C. Sorba, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 218.
3 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma, 1991 ("Quaderni dal carcere"), p. 78.
4 Lettera di G. Verdi a G. Piroli del 23 dicembre 1855 in Carteggi Verdiani, III, a cura di A. Luzio, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1947, p. 173.
5 Lettera di G. Verdi a O. Arrivabene del 25 maggio 1863, in Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene (1861-1886), raccolto e annotato da A. Alberti, con prefazione di A. Luzio, Mondadori, Milano, 1931, p. 26. 


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Fuori dal teatro. Modi e percorsi della divulgazione di Verdi, a cura di A. Carlini, Marsilio, Venezia, 2015.
R. Leydi, Diffusione e volgarizzazione, in Storia dell’opera italiana. Teorie e tecniche immagini e fantasmi, VI, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, EDT, Torino, 1988, pp. 301-392.
E. Sanguineti, Verdi in technicolor, Il melangolo, Genova, 2001.
C. Sorba, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari, 2015.