Parlare di un argomento come quello del rapporto tra Giuseppe Verdi e la stagione risorgimentale italiana, che condusse, con fatica e tanti ostacoli, all’agognato traguardo unitario, non è mai impresa facile. Questo per tre ordini di motivi: il primo è senz’altro che sulla questione ci si interroga sin dall’epoca di Verdi, e molti suoi contemporanei discussero animatamente sull’effettivo contributo che l’operista aveva dato al Risorgimento; sono state poi scritte centinaia e centinaia di pagine sul rapporto – spesso traslato in una dimensione epica e leggendaria – tra l’italiano più famoso al mondo e l’Unità della nazione; un secondo motivo riguarda la difficile distinzione tra la volontà dell’autore, il messaggio – politico, sociale, etico-morale – affidato alle sue opere, e l’effettivo destino dei suoi melodrammi, compresa la forte valenza simbolica della quale sono stati investiti sin dagli esordi; infine, il grado di consapevolezza dell’operista stesso, che non ha mai nascosto, pur non essendo il suo teatro ideato per innescare rivolte o moti unitari, un fervente amor di patria e la vicinanza al popolo oppresso. Del reale tasso di coinvolgimento e consapevolezza di Verdi purtroppo nessuno potrà mai rendere conto in maniera esaustiva, se non Verdi stesso, che però custodì gelosamente il suo reale pensiero.
Il titolo verdiano che ancora oggi – nell’opinione pubblica dell’intera nazione – è considerato più intimamente connesso con il Risorgimento è Nabucco. Un’opera di svolta, che sancì l’ingresso del giovane Verdi nel firmamento operistico italiano, ridonando fiducia al Maestro dopo il fiasco di Un giorno di regno, a causa del quale aveva seriamente meditato di abbandonare la musica e il teatro. Il coro verdiano più famoso, infatti, proviene proprio dal III atto di quest’opera: si tratta del celeberrimo coro di schiavi ebrei, deportati sulle rive dell’Eufrate dall’esercito babilonese invasore, che “volano” con il pensiero fino a raggiungere idealmente la lontana patria perduta. Verdi stesso, a distanza di diversi anni, contribuì alla creazione di un’aura leggendaria intorno a questo coro: l’Unità d’Italia era ormai raggiunta, sui muri non si scriveva più VIVA V.E.R.D.I. (acronimo, com’è noto, della frase "Viva Vittorio Emanuele Re Di Italia"), ma il compositore serbava, evidentemente, un debito di riconoscenza nei confronti di quell’opera giovanile, e nello specifico di quell’aria per coro che gli fece conquistare una fama internazionale.
La testimonianza del Maestro fu raccolta da Giulio Ricordi nel 1879, e affidata ad un volume intitolato Giuseppe Verdi. Vita aneddotica, pubblicato nel 1881 a Milano: in questo libro sono presenti vicende biografiche confermate dal compositore stesso, e tradotte in italiano da Folchetto (nome d’arte di Jacopo Caponi). Tradotte perché in origine si trattava di ben 17 articoli aneddotici scritti, in lingua francese, dal giornalista e critico Arthur Pougin.1 Parlando dell’origine del Nabucco, la memoria di Verdi ci riporta a un incontro fortuito tra lui e l’impresario Merelli, che aveva appoggiato il compositore sin dai suoi primi passi nel mondo dell’opera. Merelli, che non sopportava l’idea che Verdi abbandonasse la sua carriera appena cominciata, gli propose un libretto già pronto, scritto dal poeta Temistocle Solera. Verdi, restìo a leggerlo, se lo mise in tasca controvoglia. Il racconto prosegue in questo modo:
Strada facendo mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore. Mi rincasai e con un gesto quasi violento gettai il manoscritto sul tavolo […]. Il fascicolo cadendo sul tavolo si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava accanto a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: "Và pensiero, sull’ali dorate".
In questo racconto – la cui veridicità è senz’altro offuscata dai lunghi anni trascorsi rispetto all’episodio e forse anche dalla stessa volontà del compositore – troviamo tutta l’energia simbolica di quei versi di Solera che avrebbero reso immortale questa pagina corale. Anche se il mito del Và pensiero come inno del Risorgimento è sorto molto dopo la composizione di Nabucco, è indubbio che la preghiera sofferta di un popolo in catene produsse nell’immaginario collettivo del pubblico italiano un doloroso ma allo stesso tempo catartico senso di immedesimazione. La melodia, scritta nell’inconsueta tonalità di Fa diesis maggiore, accarezza i versi di Solera come "le aure dolci del suolo fatal" che improfumano la perduta patria degli Ebrei; l’esplosione della sezione centrale, nel vicino tono della dominante, consegna un messaggio a quel "volgo disperso che nome non ha", per citare un altro celebre coro ‘risorgimentale’, questa volta tratto dall’Adelchi manzoniana: e il messaggio è di non lasciare che "l’arpa d’or" penda muta dai salici, ma, al contrario, riaccendere le "memorie nel petto" e continuare la battaglia. Ascoltiamo il ‘Và pensiero’ dal Nabucco:
Dopo il crudele tiranno babilonese, la cui mente rinsavisce convertendosi al giudaismo, e liberando la figlia Fenena e l’intero popolo ebraico, il teatro di Verdi è tutto un susseguirsi di oppressori e oppressi, di malvagi monarchi ed eroi melanconici, che si struggono per amore e per un inestinguibile anelito di libertà. Anche i cori ‘risorgimentali’ diventano sempre più frequenti sui palcoscenici verdiani, venendo sempre più percepiti e interpretati come chiamate collettive all’unificazione nazionale, magari camuffate dalla ‘maschera’ storica che il coro indossa a seconda dell’opera messa in scena: si possono citare, tra questi, "Si ridesti il Leon di Castiglia" dall’Ernani e "O Signore, dal tetto natio" da I Lombardi alla prima crociata. Ma il coro che ha saputo restituire con maggiore efficacia espressiva lo scoramento e il senso di dolore e perdita di tutti quei patrioti italiani che vedevano fallire – almeno sino alla prima guerra d’indipendenza, nel glorioso 1848 – uno dopo l’altro i moti rivoluzionari e le azioni insurrezionali, si deve al primo incontro di Verdi con Shakespeare: drammaturgo e poeta tragico che amava e leggeva appassionatamente sin dalla gioventù – il progetto, mai realizzato, di un’opera basata sul King Lear riaffiora come un fiume carsico assai di frequente nell’intero arco dell’esistenza di Verdi – Shakespeare ha rappresentato per il compositore non soltanto l’infinita tavolozza delle passioni umane da cui attingere a piene mani per scavare nella psicologia dei personaggi; è infatti la visione tragica del potere, la sua natura devastatrice e corruttiva ad aver affascinato l’operista a tal punto da scegliere la più violenta ed emblematica delle tragedie shakespeariane dedicate a questo tema. Macbeth, presentato a Firenze per la prima volta nel 1847 – e poi in una seconda versione francese nel 1865 – offrì a Verdi la perfetta sintesi tra dramma storico, efficacia drammaturgica e tematica del fantastico sovrannaturale; ma soprattutto fu l’occasione per dare vita, sotto forma di ‘visione’ teatrale, alla dimensione sanguinosa e spietata del potere tirannico, una prospettiva cupa e senza redenzione che accompagnò Verdi sino a tarda età, quando da scettico senatore del Regno italiano constatava la mediocrità delle classi dirigenti postunitarie.
Il coro rappresenta una delle vette più alte mai raggiunte da Verdi nelle scene d’insieme: la versione del 1865, che qui ascoltiamo, testimonia un utilizzo audace e sperimentale dell’orchestrazione e del movimento armonico, per restituire tutta la cupezza e la sventura della Scozia oppressa dalla tirannia di Macbeth. L’ingresso di Macduff, cui sono stati uccisi tutti i figli a causa delle paranoie monarchiche, è sostenuto da un corale intonato dagli ottoni, denso di sforzati e accompagnato dai rulli di timpani; gli archi si aggiungono con quinte vuote e pizzicati, mentre i legni si insinuano con figurazioni sincopate che stridono armonicamente, restituendo il lamento collettivo del popolo perseguitato. Il canto dei soprani, tristissimo e angoscioso pianto di madri, si accompagna a quello dei ‘padri’ della patria scozzese, per poi culminare insieme nella cadenza finale, dove l’intero coro intona un tritono, ossia un intervallo di quarta eccedente, così dissonante da essere considerato il ‘diabolus in musica’ in epoca medioevale. Ascoltiamo Patria oppressa:
Gli avvenimenti del 1848 portarono nuova linfa vitale per il teatro verdiano, contribuendo a consolidare in modo definitivo la sovrapposizione tra il suo melodramma e l’impeto irredentista che scosse l’Italia e tutto il Vecchio Continente. Le Cinque Giornate di Milano liberarono la capitale lombarda a forza di barricate, costringendo l’esercito austriaco alla fuga; Venezia insorse contro il reggente asburgico e proclamò la Repubblica sotto la guida del mazziniano Daniele Manin; il duca di Parma Carlo II fuggì e Ferdinando II di Borbone concesse una Costituzione al popolo in rivolta. Verdi si liberò di un contratto che aveva sottoscritto con il Teatro San Carlo all’epoca di Alzira, che lo avrebbe costretto a rappresentare un’altra opera a Napoli nell’estate del 1847: i fatti del ’48 portarono a un cambio di direzione ai vertici del teatro napoletano e quindi Verdi si considerò libero da ogni vincolo contrattuale, per il quale, tra l’altro, era già in ritardo. L’idea fissa che aveva ora in testa era comporre un’opera di soggetto patriottico su libretto di Cammarano, per sostenere l’ondata rivoluzionaria. Verdi lasciò Parigi, dove era stata proclamata la Seconda Repubblica, e arrivò a Milano subito dopo la liberazione dagli austriaci; da questa città, dove incontrò Mazzini – fatto tutt’altro che secondario e vedremo perché – scrisse all’amico Piave, che si era arruolato nella Guardia Nazionale di Venezia, quella che ad oggi è forse una delle sue lettere più celebri:
Figurati s’io voleva restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a tutta Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è suonata, siine pur persuaso, della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere2.
Dicevamo quanto fosse stato significativo l’incontro a Milano con Giuseppe Mazzini, uno dei padri della patria italiana: la nuova opera scritta sul libretto di Cammarano, La Battaglia di Legnano, tenne infatti a battesimo la Repubblica Romana, esperimento politico tra i più innovativi ed avanzati del Risorgimento italiano, che liberò la futura capitale dal controllo pontificio dal febbraio al luglio del 1849, sotto la guida dei tre triumviri Mazzini, Armellini e Saffi. L’opera andò in scena per la prima volta al Teatro Argentina, il 27 gennaio del 1849. L’argomento prescelto, su cui Cammarano lavorò con estrema lentezza, dalla primavera del ’48, appunto, al gennaio del ’49, era un episodio di storia medievale, ossia la Lega Lombarda di Alberto da Giussano che aveva sconfitto l’invasore Federico Barbarossa nel 1175. Il rapporto con Mazzini fu una relazione complessa e non sempre facile, pur nell’ammirazione reciproca: i due si erano conosciuti a Londra, dove il patriota genovese era in esilio; a seguito delle Cinque Giornate, Mazzini aveva chiesto a Verdi di musicare un inno patriottico, commissionato poi a Goffredo Mameli, il celebre Suona la tromba. Verdi accettò con entusiasmo e scrisse a Mazzini nell’ottobre del 1848, a lavoro terminato, con l’auspicio che tale inno potesse essere presto cantato nelle pianure lombarde tra il rombo dei cannoni.3
Molti anni prima, durante l’esilio elvetico del 1835, Mazzini aveva scritto un breve ma importantissimo trattato di estetica, la Filosofia della musica: nella visione progressiva e repubblicana di Mazzini, l’opera italiana doveva chiudere definitivamente l’epoca di Rossini – definito un ‘titano restauratore’ – e abbracciare la causa collettiva e nazionale, attraverso una funzione educativa e pedagogica del popolo italiano, affinché il coro nel melodramma potesse rappresentare le istanze e le attese dell’intera nazione. Il “Nume ignoto” che doveva ancora venire in Italia per archiviare Rossini non era specificato in questo trattato: non poteva essere Bellini, né Donizetti, di cui pure Mazzini aveva grande stima, specialmente per alcune opere ‘politiche’ come il Marin Faliero. Sarebbe stato proprio Verdi a ricoprire quel ruolo, diversi anni dopo. Come i moti del 1848, anche l’esperimento della Repubblica Romana ebbe vita breve: le armate francesi, a forza di baionette, repressero l’esperimento rivoluzionario, riportando Pio IX sul soglio pontificio; la Repubblica di Venezia fu costretta alla resa dopo mesi di assedio; con la sconfitta di Custoza e la ritirata dell’esercito piemontese, l’Austria riprese il controllo di tutto il Lombardo-Veneto. Il nodo nevralgico della mancata rivoluzione del 1848 fu squisitamente politico: a dividere gli insorti era il futuro assetto istituzionale che avrebbe dovuto avere la penisola una volta raggiunta l’unità. Il movimento cosiddetto neoguelfo, che aveva il suo esponente di spicco in Vincenzo Gioberti, pensava a una federazione delle repubbliche italiane sotto la guida del Papato; i mazziniani credevano in una repubblica unitaria, laica e con una nuova costituzione; i ‘moderati’ pensavano infine che il processo unitario dovesse essere guidato dalla casa regnante dei Savoia, annettendo il resto della penisola al Regno piemontese. Questa divergenza di vedute e questo conflitto ideale furono tra le ragioni del fallimento del Risorgimento, o quantomeno della strategia mazziniana: non a caso, a vincere fu l’opzione sabauda, che da molti patrioti italiani fu vista come un’annessione da parte di un’antica monarchia e non un’unificazione vera e propria.
Ma quando fu proclamata la Repubblica Romana il sogno mazziniano sembrava sul punto di realizzarsi. I bollenti spiriti rivoluzionari di Verdi, come ha scritto Paolo Gallarati, si sarebbero negli anni raffreddati, sotto l’influsso del pensiero di Cavour e della Destra Storica; ma quel 27 gennaio del 1849 la stampa di Roma liberata accolse il melodramma verdiano come si accoglie un teatro intellettuale e impegnato, privo di frivolezze e di edonismo, mentre la folla si accalcò ai botteghini e la messinscena fu accolta con ovazioni, boati, coccarde tricolori. Verdi venne chiamato ben venti volte sul proscenio. Del resto, non è difficile intuirne il motivo: si tratta davvero della più patriottica tra le opere di Verdi. Il coro che all’inizio dell’opera inneggia alla Lega Lombarda contro il Barbarossa intona un grido universale dal significato inequivocabile: "Viva Italia, forte ed una / colla spada e col pensier!".
Ascoltiamo l’ouverture della Battaglia di Legnano che, accanto a episodi energici e brillanti (la sigla musicale della Lega Lombarda, una fanfara di trombe e tromboni che ammicca alla Marseillaise francese), propone momenti più intimi ed elegiaci, associati al personaggio di Arrigo, che scrive una lettera alla madre la sera prima della battaglia: a esempio, questo elegantissimo canone a quattro voci tra clarinetto, flauto, oboe e fagotto:
Dopo la fine della Prima Guerra d’Indipendenza, terminata con la vittoria dell’Impero austriaco, il teatro di Verdi si volse verso un lato più intimistico ed elegiaco: in questa direzione vanno capolavori come Luisa Miller, Stiffelio o la celeberrima “trilogia popolare”. L’anno della Seconda Guerra d’Indipendenza, il 1859, venne messo in scena a Roma – grazie all’impresario del Teatro Apollo Vincenzo Jacovacci, che evitò il più possibile le scuri della censura – l’opera Un ballo in maschera, su libretto di Antonio Somma. L’opera – il cui soggetto era già stato messo in musica, tra gli altri, da Daniel Auber (Gustave III, ou Le bal masqué) e Saverio Mercadante (Il reggente) – doveva originariamente andare in scena a Napoli con il titolo di Una vendetta in domino, ma la censura borbonica fu appunto implacabile, cosa che fece andare Verdi su tutte le furie. Il soggetto dell’opera è effettivamente molto ‘pericoloso’ dal punto di vista politico: trattandosi del rifacimento del Gustavo III di Eugène Scribe, che racconta l’assassinio del re Gustavo III di Svezia, ucciso dai congiurati durante un ballo nel 1792, venne considerato troppo eversivo e sobillatore, considerato il fatto che appena un anno era trascorso dal tentato omicidio di Napoleone III da parte di Felice Orsini. La censura romana pretese che il regicidio sparisse – e che quindi la congiura fosse rivolta contro un qualsiasi altro tipo di governante, ma non un monarca – e che l’azione fosse spostata in una colonia inglese nell’America del Seicento.
L’opera sembra in effetti un omaggio ai cospiratori risorgimentali, vale a dire quei patrioti carbonari e mazziniani che, a esempio, si potevano facilmente riconoscere nei briganti sodali di Ernani; ed è quindi comprensibile che la censura ne fosse spaventata. Ma non si trattava di un’opera politica che individuava nella cospirazione e nella violenza – un attentato, un omicidio – contro il potere nemico la soluzione a tutti i problemi. Come ha dimostrato ampiamente il musicologo Antonio Rostagno, Un ballo in maschera è davvero l’opera più politica di Verdi, perché ha saputo mettere da parte la ‘teoria del pugnale’, una strategia insurrezionale teorizzata da Mazzini, dalla quale lo stesso Manin si era apertamente dissociato. Samuel e Tom, come tutti i congiurati dell’opera, sono connotati negativamente, mentre il Conte Riccardo, governatore di Boston, è un sovrano illuminato, colpevole soltanto di amare la donna del suo migliore amico. L’unità d’Italia non è più un obiettivo da raggiungere con le barricate e il suono dei cannoni, come avveniva ai tempi della Battaglia di Legnano: essa necessita invece di una strategia politica moderata e liberale, che unisca le migliori energie della nazione, tessendo una tela istituzionale e diplomatica, proprio come Cavour e Vittorio Emanuele II seppero fare. Il sogno risorgimentale di un Paese libero dall’oppressione straniera e anche da qualsivoglia potere monarchico stava cedendo il posto a un’annessione – tutt’altro che indolore e priva di conseguenze – dell’intera penisola da parte della monarchia sabauda. Ma Verdi – il cui nome, come si è detto, proprio in questi anni era utilizzato come acronimo nelle scritte sui muri – non poteva che essere d’accordo: era necessario mettere da parte ogni massimalismo mazziniano per raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza in modo pacato e realistico. Riccardo, esponente del buon governo, amico sincero, sovrano leale e generoso, attento al bene comune, muore in scena pugnalato per colpa di un estremismo politico che troppo a lungo ha tenuto in scacco l’Italia. È lui stesso a sentenziare: "Bello il poter non è, che de’ soggetti / le lacrime non terge, e ad incorrotta / gloria non mira". Il tema del corale, che ascoltiamo nell’Ouverture, è intonato in scena come un canto di ringraziamento e di lode, dei ‘sudditi’ felici del buon governo; subito dopo, un sinistro fugato ci restituisce tutta la scellerata malvagità e la miopia politica dei congiurati assassini. È dunque radicalmente cambiato il Verdi eroe e simbolo del Risorgimento che avevamo conosciuto dieci anni prima. Ascoltiamo l’Ouverture di Un ballo in maschera:
Dopo l’Unità d’Italia occorrerà aspettare sino ad Aida – andata in scena quando Roma era finalmente diventata la capitale del Regno – per sentire riecheggiare sul palcoscenico tematiche come l’amor di patria, il sacrificio per il proprio popolo, il tradimento, l’espiazione, tutti filoni prettamente “risorgimentali”; e il vecchio Verdi, ormai disilluso e stanco, chiuderà la sua meravigliosa carriera operistica tornando a Shakespeare, per liquidare con un sorriso amaro e ironicamente beffardo tutte le grandi ambasce che avevano caratterizzato la sua esistenza, insieme a quella dell’intera nazione. "Tutto nel mondo è burla", nel gran fugato del Falstaff, è il testamento dell’uomo-artista che ha fatto grande l’Italia e ha reso immortale la nostra cultura, grazie alla forza e alla bellezza del suo teatro.
Volgendosi indietro, Verdi avrà sicuramente visto tanti sogni, tante promesse, tante illusioni spesso disattese e tradite: eppure quei sogni, e quei valori risorgimentali in cui l’operista, tra entusiasmi e dubbi, aveva sempre creduto, non sono stati vani. Sono, invece, ancora oggi pensieri che custodiscono la nostra memoria e che hanno costruito la nostra identità culturale. E che ancora oggi volano sull’ali dorate.
1 Si veda l’edizione originale del 1881, pubblicata a Milano nel 1881; oggi il volume è disponibile in una recentissima ristampa: Arthur Pougin, Vita aneddotica di Giuseppe Verdi, Passigli, Firenze 2022. La citazione che segue nel testo è tratta da lì.
2 Lettera di Giuseppe Verdi a Francesco Maria Piave del 21.4.1848 oggi in Giuseppe Verdi, Lettere, a cura di Eduardo Rescigno, Einaudi, Torino 2012, pp. 192-193.
3 Lettera di Giuseppe Verdi a Giuseppe Mazzini, 18.10.1848, in Giuseppe Verdi, Lettere, a cura di Eduardo Rescigno, Einaudi, Torino 2012, p. 199.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Julian Budden, Le opere di Verdi, 3 voll., EDT, Torino, 1985;
Paolo Gallarati, Verdi, Il Saggiatore, Milano, 2022;
Massimo Mila, Verdi, Rizzoli, Milano, 2000;
Giuseppe Verdi, Lettere, a cura di Eduardo Rescigno, Einaudi, Torino, 2012.