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Come componeva Giuseppe Verdi? Nella bottega del Maestro
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Come componeva Giuseppe Verdi? Nella bottega del Maestro
Come funzionava la produzione di un’opera, dall’idea alla realizzazione? I segreti del musicista più pagato del suo tempo (sull’esempio di Luisa Miller).
Autore: Giovanni Meriani

10.440; 10.850; 18.000; 20.000; 24.000; 22.000; 13.000; 28.150; 60.000; 40.000; 150.000. Questa è la lista di compensi, convertiti in franchi francesi, che furono corrisposti a Giuseppe Verdi per quasi tutte le sue opere da Ernani (1844) ad Aida (1871). Non esiste modo migliore per rappresentare l’andamento del successo di Verdi nella sua carriera; questa lista, infatti, ci dice due cose: Verdi fu pagato sempre di più e fu sempre pagato tantissimo per il suo lavoro. Per intenderci sulla scala di grandezza, i 10.440 franchi che costò Ernani valgono circa 31.000 €. Cosa c’era dietro questi compensi astronomici? Un lavoro – il processo creativo – che portava ad un prodotto: l’opera. Proveremo dunque a capire come funzionava questo lavoro così ben pagato e come questo lavoro influenzava le caratteristiche dell’opera. Entreremo, insomma, nella bottega del maestro leggendo lettere private, contratti, documenti riservati e dando anche uno sguardo agli abbozzi inediti di una delle sue opere principali: Luisa Miller.

Prima di cominciare il nostro viaggio, sono necessarie due premesse. In primo luogo, sarà necessario generalizzare. Il processo compositivo di Verdi può essere ricostruito sulla base dei singoli casi. Cioè, sappiamo come di norma Verdi procedeva per comporre un’opera. Però, ogni caso è un po’ una storia a sé. Luisa Miller, poi, non fa eccezione e, per di più, è anche un caso abbastanza speciale perché smentisce molte di queste generalizzazioni. E quindi perché non parlare di un caso “normale” di genesi ma insistere su quest’opera? Perché parlare di Luisa Miller permette di ricostruire la normalità della creatività verdiana, ma anche di vedere tutta una serie di possibili eccezioni, inciampi, deviazioni dal percorso compositivo che Verdi aveva programmato.

Roberto Focosi (1806-1862). https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4239853
Roberto Focosi (1806-1862). https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4239853

La seconda delle mie premesse riguarda il titolo. Ho parlato di “bottega del maestro” ma forse sarebbe più corretto parlare di più “maestri”, di più autori. L’opera, infatti, era intesa e trattata come un bene di consumo e come tale era anche prodotta: attraverso un processo di lavoro in diverse fasi che coinvolgeva un certo numero di professionisti specializzati e chiamati spesso a collaborare tra loro, esattamente come oggi succede per un qualsiasi bene di lusso. In questo processo, la fase di cui era responsabile solo ed esclusivamente Verdi, la composizione della musica, era sì importante, ma era solo uno dei tanti passaggi necessari alla produzione.

Cominciamo quindi a vedere come funzionava questo processo. La prima fase era quella delle trattative. Abbiamo detto che l’Opera è un prodotto; dunque, c’è bisogno di precise condizioni di mercato che rendano la sua produzione economicamente redditizia. Queste condizioni erano intercettate, o create, da un gruppo ristretto di persone in trattativa tra loro.

Come funzionava la trattativa? Negli anni in cui è ambientata la nostra storia, intorno alla metà dell’Ottocento, stavano avvenendo delle mutazioni del sistema produttivo; quindi, è difficile dire quale fosse la norma a tal riguardo. Però possiamo dire che di sicuro per produrre un’opera dovevano interagire tra loro tre figure: un compositore, un editore e un impresario teatrale. Facciamo un paragone con gli attuali film e serie tv. Il compositore si doveva occupare, come oggi fa un regista, della creazione del prodotto, che nel caso specifico era il manoscritto dell’opera, unico oggetto materialmente indispensabile per metterla in scena. L’impresario, dal canto suo, si occupava invece della produzione: dall’ingaggio delle maestranze (macchinisti, cantanti, orchestrali, inservienti...) all’organizzazione pratica delle singole recite. L’editore, infine, si occupava della distribuzione. Egli gestiva il noleggio delle parti staccate (cioè delle parti musicali per ogni singolo strumento) e della partitura per consentire ad altri teatri di mettere in scena l’opera dietro pagamento. Inoltre, si occupava della vendita di materiale “accessorio” ma che all’epoca aveva un gran mercato: libretti, riduzioni per canto e pianoforte dell’opera, bozzetti (cioè illustrazioni a stampa degli elementi scenici di un determinato allestimento) e illustrazioni teatrali di vario tipo.

Ora, conosciamo i personaggi che condussero la trattativa di Luisa Miller. Il primo è Giuseppe Verdi. Compositore sulla trentina ma di straordinario successo, come confermano le sue quotazioni di mercato in crescita continua. Nato in Italia, a Busseto, ma sostanzialmente cosmopolita, appena può soggiorna per molto tempo nella capitale culturale europea dell’epoca: Parigi. Lì tenta di inserirsi nel mercato locale, che offriva possibilità di guadagno molto maggiori rispetto a quello italiano. Il secondo è l’editore Giovanni Ricordi. È un grandissimo capitano di industria, è la finissima mente imprenditoriale che ha fondato l’impero economico di Casa Ricordi, casa editrice che esiste tuttora. Inoltre, aveva scommesso su Verdi fin dall’inizio (mostrando – va detto – di essere un ottimo talent scout) e vuole tenerselo stretto. Lo fa “coccolandolo”: gli trova ingaggi sempre più remunerativi e gli garantisce delle royalties editoriali (cosa molto innovativa per l’epoca). In ultimo, l’impresario: Vincenzo Flaùto. È l’amministratore delegato degli azionisti del Real Teatro di S. Carlo, è furbissimo e abbastanza capace da far funzionare un’impresa in costante perdita, barcamenandosi tra azionisti e cantanti, compositori ed editori.

Le trattative per quella che sarebbe diventata Luisa Miller cominciano nel 1844. Ricordi trovò a Verdi un ingaggio per Napoli e il compositore firmò un regolare contratto che, tra le altre cose prevedeva la composizione di un’opera per Napoli nell’anno 1847. Però Verdi provò fin da subito a rescindere questo contratto, perché in quel momento si stava proiettando in Europa, cercava ingaggi a Parigi e a Londra, e stringere il contratto napoletano era un impegno che non poteva più mantenere. Verdi andò anche vicino alla rescissione appellandosi a un cavillo: un presunto ritardo nella consegna del libretto. Su questa base – molto incerta, a dir la verità – Verdi provò a considerarsi, nell’agosto ’48, libero dal suo impegno di lavoro col San Carlo. A Napoli la notizia non venne presa benissimo: fu frenesia pura. Il San Carlo non poteva permettersi di mandare a monte quell’opera e si affrettò a trovare un responsabile per il ritardo: il librettista.

Entra in scena a questo punto un quarto personaggio. Si tratta del poeta ufficiale del San Carlo: Salvadore Cammarano. Ex-commediografo, dal 1834 scrive solo drammi per musica ed è diventato da subito un librettista di grido. A esempio, fu autore di Lucia di Lammermoor e Maria di Rohan per Donizetti, de La vestale per Mercadante, di Alzira per lo stesso Verdi. Insomma, nel suo campo era considerato uno dei migliori, una vera e propria autorità. Ma come spesso capita alle autorità, in quel momento era senza un soldo. Dopo le scottanti dichiarazioni di Verdi sul contratto, l’impresa del San Carlo, infatti, aveva bloccato tutti i pagamenti a suo vantaggio e lo aveva minacciato di ricorrere a vie legali supponendo che fosse lui il ritardatario. Spaventato e in bolletta, Cammarano si ridusse a implorare Verdi di accettare una volta per tutte di fare l’Opera, come leggiamo in una lettera dell’11 settembre 1848:

Si vorrebbe avvilupparmi in modo che tutta la responsabilità del libro da voi non ricevuto in tempo sia mia […] Non entra nell’animo mio non dirò lo sgomento ma il sospetto nemmeno che portato l’affare per le vie giudiziarie potesse il torto essermi addebitato […] ma ciò potrebbe giovarmi in appresso, intanto il presente è per me triste oltre ogni credere. Udite: col peso di numerosa famiglia (ho sei figli!) mi son trovato in questi difficili tempi privo affatto per sette lunghi mesi di ogni sussidio, poiché io non ho altri proventi se non quelli del teatro.1

Prosegue descrivendo il ricatto dei pagamenti in seguito al tentativo quasi riuscito di rescissione del contratto e chiude:

Voi potete essere il mio angiolo salvatore, coll’accettare di scrivere nel venturo anno teatrale. Io non conosco il vostro contratto ma vi suppongo interamente dalla parte della ragione, quindi è più bello e più vasto il campo che si apre alla Vostra generosità. Né poca soddisfazione sarà per l’animo vostro potere dall’altezza in cui vi ha collocato il vostro ingegno stendere la mano ad un uomo, ad un artista, ad un padre di famiglia, e sollevarlo dal precipizio in cui l’ha gettato tutt’altro che la sua colpa. Col cuore pieno di lagrime ed in ginocchio, come innanzi al Datore di ogni bene, io ed i miei figli attendiamo, non dirò questo favore, ma questa grazia.2

Verdi rimase colpito dalle implorazioni e, seppure burbero e indispettito, alla fine accettò:

L’impresa di Napoli con mezzi poco legittimi e poco umani vuol ottenere quanto il solo adempimento a doveri contratti doveva assicurarle. Voi, uomo onesto, padre di famiglia, artista distinto sareste la vittima di tutti questi ignobili intrighi. Io forte della mia scrittura potrei spezzare le minacce dell’impresa, e lasciarla ma a riguardo vostro a solo vostro riguardo scriverò l’opera per Napoli l’anno venturo, dovessi rubare due ore tutti i giorni al mio riposo, alla mia salute! […] è per voi solo che io faccio questo sagrifizio.3

Quindi le trattative si sono chiuse. L’opera si fa nel ’49 seguendo i termini del contratto precedente, i cui aspetti economici erano però divenuti nel tempo obsoleti: 13.000 franchi per il solo spartito (sono 9.000 franchi in meno rispetto all’opera precedente e non si contemplano percentuali di diritti editoriali o di sfruttamento vario per l’autore). Verdi sarebbe dovuto andare a Napoli per metterla in scena e avrebbe ricevuto il libretto completo quattro mesi in anticipo sulla première.

A questo punto si passò alla fase successiva, la scelta dell’argomento, e nemmeno questa si rivelò facile da superare. Siamo infatti in un mondo in cui a teatro si fa politica e propaganda, quindi bisogna stare bene attenti a quali storie arrivano sul palcoscenico. Ancor di più poi se si tratta di un teatro, il San Carlo, sì pubblico, ma idealmente e fisicamente legato alla corte di una delle dinastie più conservatrici d’Europa. Quello che si rappresentava lì era percepito come diretta emanazione della Corona; quindi, l’attenzione era d’obbligo, e lo era ancor di più in quegli anni. Siamo nel ’48-’49. Sono anni infuocati in cui in tutta Europa scoppiano, e proprio a partire dal regno delle Due Sicilie, rivolte violentissime che vengono represse sul filo della baionetta. Trattandosi poi di Verdi, autore che ieri come oggi è legato alla narrazione patriottica italiana, il pericolo che la nuova opera fosse percepita come sovversiva era alto.

Del soggetto della nuova opera che sarebbe andata in scena a Napoli si parlava già dal ’48. Verdi aveva chiesto di scegliere come soggetto «un dramma breve di molto interesse, di molto movimento, di moltissima passione onde mi riesca più facile musicarlo».4 Quel che Verdi descrive è un dramma senza mezze misure, a tinte forti. Perché un soggetto con queste caratteristiche sarebbe stato più facile da musicare? Ho usato la parola “tinte” non a caso. Nella concezione di Verdi il concetto di “tinta” o “colore drammatico” è centrale. Si tratta di un clima particolare, un’idea, un concetto che permea tutta un’opera e la rende unica. In un certo senso, la “tinta” verdiana è paragonabile a quella che gli sceneggiatori chiamerebbero la grip di un soggetto, l’idea di fondo che deve essere solo esplicitata. Dunque, un dramma con una tinta chiara, o facile da individuare, gli permetteva di mettersi rapidamente al lavoro.

Dopo alcuni progetti andati in fumo tra i ritardi delle trattative, alla fine si approdò a un argomento entusiasmante e, per l’epoca, attuale. Si trattava de L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi. Questo romanzo, ambientato nella Firenze assediata da Carlo V nel 1530, sembrava a Verdi adatto come fonte per un libretto d’opera, anche perché vi leggeva «caratteri già disegnati e tutti belli»,5 cosa che, secondo Verdi, avrebbe velocizzato il lavoro di Cammarano. Questi, però, non si fece contagiare dall’entusiasmo del compositore. Per tutto il periodo dal dicembre ’48 al febbraio ’49 non ci furono contatti tra i due. Probabilmente Cammarano deve aver preso tempo perché sapeva cosa voleva dire avere a che fare con un ambiente politico reazionario come quello napoletano. Aveva motivo di preoccuparsi: l’Assedio di Firenze era un bel romanzo e aveva avuto una grande diffusione, una diffusione preoccupante, visto l’argomento apertamente insurrezionalista. Insomma, un’opera tratta da quel romanzo non sarebbe mai passata.

La situazione, però, si sblocca il 7 marzo, data in cui a Verdi arriva a Parigi da Napoli un grosso pacco di materiali. Vi erano tre lettere che illustravano il lavoro fatto sul grosso allegato che le accompagnava: il “Progetto di un Melodramma tragico” intitolato Maria de’ Ricci. Inaspettatamente, Cammarano aveva scelto proprio l’Assedio di Firenze. Certo, lo aveva edulcorato un po’ (cambiando il titolo, a esempio), ma la storia era proprio quella raccontata da Guerrazzi.

Che tipo di documento è il “Progetto”? È un canovaccio che espone in prosa il contenuto del dramma. In gergo cinematografico lo si chiamerebbe sinossi. Vi si trova infatti la vicenda divisa in atti e scene, e descritta a un certo livello di dettaglio. In sostanza, il programma definisce cosa deve succedere nel corso dell’opera. È il documento, in sostanza, col quale si pone la prima pietra del cantiere iniziando a definire tutta la struttura drammatica dell’opera.

A parte la sorpresa per la scelta ardita fatta alla fine da Cammarano, fino a qui nulla di strano: quello per Maria de’ Ricci è un programma non diverso da quelli elaborati per precedenti opere di Verdi. Cosa è successo poi? come si arriva a Luisa Miller? Sostanzialmente, se alla fine Cammarano e Verdi sceglieranno Luisa Miller sarà merito, come vedremo, della Censura. Il Duca di Ventignano, capo della Censura reale, viene a sapere di questo progetto, chiede di leggerlo e diffida ufficialmente il Teatro di S. Carlo dal rappresentare qualsiasi cosa anche solo lontanamente tratta dal romanzo di Guerrazzi, e ciò «per la inopportunità del soggetto nelle attuali circostanze d’Italia e massime di Firenze».6 Cosa stava succedendo a Firenze? Pochi mesi prima, il 27 ottobre, il granduca di Toscana Leopoldo aveva ceduto alle pressioni della piazza e aveva formato un governo democratico, il cui Ministro dell’Interno era Guerrazzi, proprio lo stesso che aveva scritto l’Assedio di Firenze e che nell’agosto ’48 aveva capeggiato rivolte democratiche a Livorno! È bene ricordare che quello era un mondo in cui un democratico era praticamente un sovversivo. Ora, mettere in scena nella Napoli del ’49 un’opera tratta da un romanzo di grande notorietà scritto da un “pericoloso sovversivo”, anch’egli molto noto e peraltro abbastanza capace da arrivare al governo, sarebbe stata pazzia pura, oltre che un grave pericolo per l’ordine pubblico.

Cammarano riportò a Verdi la brutta notizia il 14 aprile, comunicando anche di essersi già rifugiato nell’unico soggetto rimasto dei tre che aveva proposto, Amore e raggiro di Schiller, e di aver già iniziato a scrivere il programma. Scriveva che, se a Verdi quest’argomento non fosse piaciuto, ne avrebbe potuto comunicare un altro, ma alla svelta e senza superare «una tal quale periferia»7 di fonti “sicure”, cioè che non avrebbero attirato le attenzioni della censura. Tanto per ispirarlo su che tipo di soggetto sarebbe andato bene, Cammarano propone a questo punto a Verdi addirittura una Cleopatra (evidentemente il I sec. a. C. doveva sembrargli una distanza storica di sicurezza sufficiente…). Forse un po’ scoraggiato, però a questo punto il compositore si fece andare bene il soggetto schilleriano. Lo fece senza obiettare? Ovviamente no. Il 26 aprile Verdi confermò il nuovo argomento, ma qui è necessario leggere la lettera, inedita fino al 2022, per illuminare meglio il clima del tempo e la motivazione anche ideologica che spinse Verdi ad accettare. Scrive Verdi:

La vostra lettera mi mette alla desolazione!! Non amerei Cleopatra. Fra i soggetti antichi avvene uno, Cassandra, ma io lo vorrei trattato in maniera che non sarebbe permesso. Potrei proporvi Ruy Blas; Le Roi s’amuse; Marion Delorme tutti tre di Vittor Hugo [sic]. Se voi credete che uno fra questi potesse ottenere la permissione per me li trovo tutti musicabili; e voi potreste sceglierne uno a vostro piacere e mandarmi il programma al più presto. In ogni modo Amore e raggiro sebbene non abbia la pompa e il lusso che si vorrebbe, è nonostante un bel soggetto, di passione, e di cuore: un soggetto da far piangere, ed ora che tutto piange in questa decrepita Europa piangiamo anche noi in teatro.8

A questo punto è deciso: la sua nuova opera per Napoli sarà tratta da Amore e raggiro di Schiller, la cui protagonista si chiama Louise, figlia del violoncellista Miller; in italiano Luisa Miller.

Il passaggio successivo, anche in questo caso è stendere il progetto, cosa che Cammarano sta già facendo. Il progetto arrivò a Verdi il 13 maggio. Che dramma è delineato nel progetto? Un dramma molto diverso dall’originale. Beninteso: cambiare delle cose nel passaggio dall’originale era la prassi, era il cuore del lavoro del librettista, il quale era responsabile della “traduzione” della fonte dal linguaggio della letteratura pura o teatrale a quello della poesia per musica. Però in questo caso le differenze sono particolarmente vistose. In primo luogo, i personaggi sono molti meno e più omogenei socialmente che nell’originale. In secondo luogo, il titolo è cambiato da Kabale und Liebe a un Luisa Miller che focalizza l’attenzione sulla protagonista. Poi, cambia l’ambientazione: dalla città tedesca del XVIII secolo al villaggio del Tirolo del XVII. In generale, tutte queste modifiche sono operate per alleggerire la critica sociale dell’originale. Dunque, quello che risulta è un dramma che inscena l’opposizione tra buoni e cattivi, o meglio tra sentimenti buoni e cattivi; appunto, tra Amore e Raggiro.

From center left: Spanish tenor Placido Domingo (in the baritone role of 'Miller'), Bulgarian soprano Sonya Yoncheva (in the title role) and Polish tenor Piotr Beczala (as 'Rodolfo, son of Count Walter') perform at the final dress rehearsal prior to the season revival of the 1990 Metropolitan Opera/Elijah Moshinsky production of Giuseppe Verdi's 'Luisa Miller' at the Metropolitan Opera House at Lincoln Center, New York, New York, Monday, March 26, 2018. (Photo by Jack Vartoogian/Getty Images)
From center left: Spanish tenor Placido Domingo (in the baritone role of 'Miller'), Bulgarian soprano Sonya Yoncheva (in the title role) and Polish tenor Piotr Beczala (as 'Rodolfo, son of Count Walter') perform at the final dress rehearsal prior to the season revival of the 1990 Metropolitan Opera/Elijah Moshinsky production of Giuseppe Verdi's 'Luisa Miller' at the Metropolitan Opera House at Lincoln Center, New York, New York, Monday, March 26, 2018. (Photo by Jack Vartoogian/Getty Images)

Verdi è contento del lavoro di Cammarano? In generale sì, ma avrebbe gradito che alcune cose fossero state mantenute come nell’originale. Veniamo a conoscenza di questo da una lettera di commento proprio al programma: non gli piace che la figura di Lady Milford sia ridotta a una più piatta Duchessa; trova che “tutto l’infernale intrigo tra Valter e Wurm che domina come il fato tutto il dramma” risulti semplificato; gli piace molto il terzo atto, invece. Anche in questo caso il tono, come si vede, è quello della trattativa. I due autori cominceranno a trattare tra di loro e lavoreranno cercando continuamente la sintesi fino alla fine del processo. Cammarano su alcune cose cede, su altre no, provando tuttavia sempre a convincere Verdi della bontà delle soluzioni da lui adottate. Verdi dal canto suo non chiede mai l’impossibile e, quando deve cedere, prova in tutti i modi a far propria la soluzione di Cammarano. In altre parole, da subito si instaura un rapporto di coautorialità: i due si mettono sullo stesso piano e si rapportano l’uno all’altro con il massimo rispetto.

Una volta steso e discusso il programma, cosa succedeva? Di norma si cominciava a scrivere il libretto e solo dopo il suo completamento il compositore si metteva al lavoro sulla musica, anche se interveniva nel processo, come abbiamo visto, già da prima. La ragione di questa presenza di Verdi anche in fasi di lavoro che non riguardano strettamente la composizione musicale sta nel fatto che sia il programma sia il libretto sono documenti attraverso cui si definisce la forma dell’opera, seppure in scale diverse. Nel programma si definiscono gli archi narrativi, quindi la sostanza drammatica dell’opera, mentre nel libretto sono già definite le articolazioni formali di quelli che saranno i pezzi musicali. In altre parole, nel programma si definiva cosa doveva succedere, nel libretto si definiva il come, sia dal punto di vista dell’eloquio dei personaggi sia dal punto di vista musicale. È già nel libretto, infatti, che si definiscono le articolazioni tra sezioni statiche (i pezzi chiusi) e cinetiche (i recitativi). Così come è direttamente collegata la definizione della forma musicale di questi pezzi alla forma che ha il loro testo. Dunque, Verdi interveniva massicciamente in fasi che non riguardavano direttamente la musica perché in questo modo cominciava comunque a lavorare alla sua idea di dramma e sarebbe arrivato alla fase di composizione della musica con una struttura formale solida e già definita.

Questo aspetto è fondamentale per capire la fase immediatamente successiva: la composizione della musica. Cosa voleva dire per Verdi comporre la musica di un’opera? Per comprenderlo dobbiamo immaginarci come poteva funzionare la cosa dal punto di vista pratico, provando ad affacciarci nello studio di Verdi. Immaginiamoci una stanza con un pianoforte, uno scrittoio, magari qualche poltrona. Verdi va prima al pianoforte, “trova” il tema (in una sessione di improvvisazione, o provando al pianoforte un’idea melodica che gli era venuta in mente prima) e poi si muove allo scrittoio per buttarlo giù. La prima forma scritta di queste idee era lo schizzo preliminare. Si tratta di annotazioni brevi, che non avevano necessariamente una destinazione, scritte in genere su uno o due pentagrammi su dei fogli o bifogli sciolti, o comunque dove Verdi aveva spazio in quel momento.

Dopo aver scritto questa prima formulazione poteva succedere che gli piacesse o che gli servisse per un pezzo dell’opera che stava scrivendo e che quindi dovesse elaborarlo. Lo faceva, molto probabilmente tra pianoforte e scrittoio, come per il resto della composizione, producendo un abbozzo. Un abbozzo è un’annotazione che copre in genere un intero pezzo musicale, è scritto su due pentagrammi e prevede, oltre alla melodia, anche qualche accenno di armonizzazione. Il testo poteva esserci oppure non esserci, e spesso capitava che Verdi scrivesse indipendentemente dall’opera che in quel momento stava scrivendo e che “riciclasse” i suoi abbozzi successivamente, facendo star sotto alla musica un testo metricamente coerente.

Quando riteneva di aver definito ed elaborato sufficientemente gli abbozzi dei singoli pezzi li metteva insieme negli abbozzi continuativi. Si tratta di lunghe annotazioni, in genere su due o tre pentagrammi, che coprono almeno due sezioni consecutive e possono però arrivare anche a coprire interi atti o intere opere. Tali annotazioni contengono in dettaglio la melodia vocale e l’accompagnamento strumentale, qualche volta con preciso riferimento agli strumenti che avrebbero dovuto suonare questo o quel punto dell’accompagnamento. Gli abbozzi continuativi contenevano inoltre anche lo sviluppo delle sezioni cinetiche che collegavano i pezzi chiusi, che in genere non passavano dallo stadio dell’abbozzo ma venivano composte direttamente nell’abbozzo continuativo. Il testo letterario veniva trattato come un continuum unico anche quando ci sono battute divise tra più personaggi. In ogni caso, si trattava di annotazioni finalizzate a verificare la continuità di più pezzi musicali, la grande arcata formale, quindi hanno quasi sempre tutto il testo letterario segnato e rappresentano a tutti gli effetti la fine del processo di composizione di una sezione.

In tal modo la fase della composizione musicale era quasi completa quando Verdi aveva abbozzi per tutta l’opera e in genere si concludeva in pochissimo tempo: settimane, un mese, un mese e mezzo, ma non di più. Un esempio famoso: la fase della scrittura della musica per La Traviata durò sole cinque settimane. Infatti per Verdi la composizione vera e propria consisteva nella stesura degli abbozzi continuativi ed era di sicuro facilitata dal lavoro precedente. Se, come detto, collaborare alla stesura del programma e del libretto voleva dire definire la struttura drammaturgica e formale, allora la composizione musicale era sostanzialmente un riempire con il giusto contenuto musicale dei contenitori formali già pronti.

Giuseppe Verdi (1813-1901) represented as a bust surrounded by the characters of his most famous works. On the left: Falstaff, Othello, Aida, La Traviata and Don Carlos. On the right: the characters of Rigoletto, Nabucco, and Oscar (from A Masked Ball). Chromos, Liebig figurine: 'Giuseppe Verdi', Italy, 1902. (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images).
Giuseppe Verdi (1813-1901) represented as a bust surrounded by the characters of his most famous works. On the left: Falstaff, Othello, Aida, La Traviata and Don Carlos. On the right: the characters of Rigoletto, Nabucco, and Oscar (from A Masked Ball). Chromos, Liebig figurine: 'Giuseppe Verdi', Italy, 1902. (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images).

Per Luisa Miller, però, le due fasi della stesura del libretto e della composizione della musica non si succedono in maniera netta, ma si accavallano, si compenetrano, si confondono e per capirci qualcosa bisogna far collaborare tra di loro le lettere e gli schizzi. Gli schizzi infatti confermano o smentiscono le lettere e le lettere forniscono chiavi interpretative per gli schizzi. Da questo studio emerge una costante della genesi dell’opera: Verdi lavorò per così dire “a spezzoni”. Cioè, componeva man mano la musica per i pezzi di libretto che Cammarano scriveva e che volta per volta gli inviava. Un’altra costante è che, vista la continua trattativa artistica tra i due, Verdi tendeva a cominciare a comporre solo dopo che aveva raggiunto la sintesi artistica con Cammarano.

La genesi dell’atto III è la riprova di questo atteggiamento. Una volta che nel maggio ’49 fu raggiunto tra i due un accordo sulla generale concezione drammaturgica dell’atto, Cammarano inviò al compositore il testo quasi subito e nel giro di pochi giorni tutto l’atto fu composto in un unico abbozzo continuativo che lo copre dall’inizio alla fine. Per l’atto II, invece, i dubbi erano molto più grandi ed erano legati anche all’organizzazione interna dei pezzi che lo avrebbero composto. Dunque, Verdi attese il più possibile per comporlo e gli abbozzi testimoniano questa genesi difficile: non esiste, al contrario dell’atto III, un abbozzo che lo copre tutto.

Quanto durò quindi questa complessa fase creativa? È difficile dirlo perché, siccome Verdi, come abbiamo visto, componeva a spezzoni, le varie fasi di lavorazione dei singoli pezzi si accavallavano fra di loro: mentre stendeva l’abbozzo continuativo di qualcosa, poteva avere ancora in corso il lavoro sugli schizzi preliminari per qualcos’altro. In ogni caso, nel carteggio si legge che il primo invio di testi da musicare avviene a fine maggio, mentre l’ultimo riferimento a un pezzo ancora da comporre lo abbiamo nell’ottobre 1849 (si tratta del quartetto del secondo atto). Dove si trovava Verdi nell’ottobre ’49? Rispondere a questa domanda ci porta a parlare della successiva fase di lavoro.

Nell’ottobre ’49 Verdi era in viaggio da Busseto, dove era rientrato nell’estate per curare alcuni affari dopo un lungo soggiorno parigino, verso Napoli. Verdi era in viaggio perché la prassi era che una volta completati gli abbozzi dell’opera, Verdi si recasse presso il teatro della prima con un anticipo di mesi, sia per seguire integralmente le prove sia perché mancava in realtà ancora un passaggio: la strumentazione. Fino a quel momento Verdi lasciava in sospeso questo elemento perché, quando componeva per teatri che non conosceva, non sapeva che orchestra avrebbe avuto a disposizione. Quindi partiva alla volta della piazza con un documento in corso di stesura (a volte già steso) di carattere ibrido. Una volta finiti gli abbozzi, prendeva della carta bianca, la rigava, la fascicolava e cominciava a impostarla per accogliere tutta la strumentazione completa (per gli abbozzi ho parlato di sistemi di 2-3 pentagrammi, qui si tratta di sistemi di 15-20 pentagrammi). Poi, Verdi trascriveva dagli abbozzi a questo documento ibrido le linee vocali, l’accompagnamento e, saltuariamente, le linee strumentali più importanti, lasciando gli altri righi vuoti, da completare. Ovviamente la trascrizione non era mai neutra: questo passaggio offriva a Verdi un’occasione in più per rivedere, correggere, tagliare, aggiungere. Questo documento è l’embrione dell’autografo per cui era stato pagato, che a questo livello si chiama “partitura scheletro”. C’è l’ossatura della musica, ma mancano ancora i riempimenti strumentali, che il compositore avrebbe inserito una volta su piazza, quando si fosse reso conto delle reali condizioni dell’orchestra.

Nel nostro caso, anche qui c’è un’eccezione. Verdi già conosceva l’orchestra del San Carlo, quindi poteva lavorare già in anticipo alla strumentazione, cosa che verosimilmente fece a inizio ottobre sui pezzi che aveva composto fino a quel momento. Però Verdi si trovò quasi obbligato a fare ciò, a causa di problemi pratici insorti nel frattempo. Partì da Busseto alla volta di Napoli il 3 ottobre. Prese la via di terra da Genova e poi, il 13 ottobre, arrivò a Roma dove venne bloccato per 13 giorni. A Roma c’era il tifo e chi entrava doveva fare una quarantena. Dunque, Verdi si trova in ritardo sull’arrivo a Napoli. Il San Carlo, però, non può permettersi di ritardare l’opera; quindi, Verdi comincia a strumentare i pezzi già conclusi e a mandarli a Napoli, dove vengono copiate le parti staccate per cantanti e orchestra e in assenza di Verdi cominciano le prove, gestite da Cammarano, che era anche un ottimo maestro concertatore. Verdi arriverà a Napoli solo il 27 ottobre e finirà di strumentare il tutto a Napoli, dove rimarrà fino alle prime rappresentazioni di quella che è finalmente diventata Luisa Miller.

Quindi siamo arrivati alla prima dell’8 dicembre ’49. Come andò la prima? Non fu un gran successo e Verdi, a dir la verità, non la prese troppo bene. Scrive il 28 dicembre all’amico napoletano Cesare De Sanctis:

Mi si scrive da taluno da Napoli stessa che si stanno macchinando ogni sorta di trame per fare cadere Luisa Miller in appresso… e che alcuno degli artisti dell’opera fa, per politica, parte di queste trame… io non sono disposto a credere nulla di questo, ma fosse anche vero, tanto peggio per loro, poco m’importa. Imbecilli tutti!!! Credono forse con queste trame schifose d’impedire all’opera se è buona di far il giro del mondo musicale?9

Imbecilli davvero: Luisa Miller venne ripresa l’anno successivo in tutta la penisola e poi nel ’53 una sua traduzione francese (Louise Miller) debuttò all’Opéra di Parigi. E d’altronde, davvero “imbecilli tutti” se oggi abbiamo ancora parlato di Luisa Miller e l’abbiamo usata per entrare nella bottega di Giuseppe Verdi.


1 Mossa, C. M. (2021 ), Carteggio Verdi-Cammarano, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma (“Edizione nazionale dei carteggi e dei documenti verdiani”), pp. 56-57.
2 Ibid.
3 Mossa, op. cit., pp. 66-67.
4 Kallberg, J. (1991), Giuseppe Verdi. Luisa Miller. Melodramma Tragico in tre atti di Salvadore Cammarano, The University of Chicago Press-Ricordi, Chicago-Milano (Le opere di Giuseppe Verdi, 1/15), p. xxxviii.
5 Mossa, op. cit., p. 108.
6 Kallberg, op. cit., p. xi.
7 Mossa, op. cit, pp. 133-134.
8 Ibid., p. 135.
9 Kallberg, op. cit., p. xiix.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Baldini, G., Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Garzanti, Milano, 1970.
Girardi, M. (a cura di), Luisa Miller. Melodramma tragico in tre atti, libretto di Salvadore Cammarano, musica di Giuseppe Verdi, Fondazione Teatro La Fenice, Venezia (“La Fenice prima dell’opera”, 5), 2006.
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