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L’esotismo fiabesco in Alzira e nel Corsaro
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L’esotismo fiabesco in Alzira e nel Corsaro
Il giovane Verdi alle prese con dimensioni culturali esotiche in due opere minori. Il genio musicale italiano tra Voltaire e Byron.
Autore: Alessandro Avallone

La storia di Alzira, tragedia lirica in un prologo e due atti di Salvatore Cammarano, è anche la storia dei rapporti tra Verdi e Napoli, capitale borbonica dell’omonimo regno e culla di una delle più feconde scuole operistiche europee nel secolo precedente. Protagonista di questo avvicinamento tra il compositore di Busseto e il Teatro San Carlo – uno dei più importanti e rinomati in Italia e in Europa – fu l’impresario Vincenzo Flauto. Dopo il successo conseguito a Venezia con Ernani, nel 1844, Verdi aveva stipulato un contratto con l’impresario napoletano, siglato il 21 marzo di quell’anno; l’accordo prevedeva la rappresentazione di un’opera su libretto di Salvatore Cammarano da rappresentarsi al San Carlo entro il mese di giugno del 1845.

Napoli era una città difficile per Verdi: l’operista e maestro per eccellenza, a quell’epoca, era Saverio Mercadante, autore di un’importante riforma del melodramma che lo stesso Verdi conosceva bene; il musicista di Altamura, futuro direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, era intervenuto, tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, sull’impalcatura formale del melodramma italiano di inizio secolo, provando a rivoluzionare la scansione dei numeri chiusi – molto spesso asettica e fredda – al fine di ottenere una continuità drammaturgica e una maggiore adesione della partitura musicale alla verità scenica. Mercadante era divenuto l’idolo della capitale partenopea, città che nei decenni precedenti aveva comunque ospitato e consacrato al trionfo moltissimi lavori di Donizetti e in particolar modo di Rossini. Dopo la messinscena di Alzira, lo stesso Verdi avrebbe ammesso che «i gran successi sono difficili in Napoli, e soprattutto per me».1 Tuttavia, egli non ebbe alcuna esitazione a sottoscrivere il contratto con Vincenzo Flauto perché troppo ghiotta era l’occasione di lavorare su un libretto di Cammarano, all’epoca il più prestigioso poeta per musica italiano, già autore di diversi melodrammi donizettiani.

La composizione di questa sfortunata opera dal sapore esotico fu comunque accompagnata da un percorso travagliato e accidentato. La salute di Verdi era infatti peggiorata nella primavera del 1845, ed egli scrisse allarmato a Cammarano per chiedere all’impresa di protrarre di almeno un mese l’andata in scena. L’impresario Flauto minimizzò questi problemi di salute, consigliando come rimedio una tintura d’assenzio e l’aria di Napoli, che l’avrebbe senz’altro rimesso in sesto, facendogli tornare l’appetito come prima. Verdi rispose in tono abbastanza piccato, sottolineando come il male di cui soffriva non era affatto «di lieve considerazione» e che «il certificato medico è stato fatto coscienziosamente né si sono immaginate o supposte malattie».2 Alla fine, il 20 giugno del 1845, Verdi riuscì a partire per Napoli, e compose l’opera in una ventina di giorni: la première si svolse il 12 agosto, con scarso successo, e innescò immediatamente una querelle tra i sostenitori di Verdi e i partigiani di Mercadante.

Il soggetto dell’opera è tratto dall’omonima tragedia di Voltaire. La scelta del soggetto non era stata di Verdi, bensì di Cammarano, ma il compositore aveva accettato di buon grado, consapevole che un tocco di forestierismo – l’opera trae spunto da un fatto storico realmente accaduto in Perù nel sedicesimo secolo, l’assassinio di un governatore spagnolo da parte di un indigeno, il giorno delle nozze combinate con l’eponima principessa Inca – e una pennellata di esotismo avrebbero giovato al successo dell’opera. «Ho ricevuto il programma dell’Alzira» scrisse a Cammarano «ne sono contentissimo sotto ogni rapporto. Ho letto la tragedia di Voltaire, che nelle mani di un Cammarano diverrà un eccellente melodramma».3 Tema centrale della tragedia di Voltaire è la polemica contro il fanatismo e l’intolleranza religiosa, presente sia nel mondo cristiano e ‘civile’ degli occupanti spagnoli, sia nella religione inca, in cui l’ardente Alzira crede convintamente; un’eroina che in Voltaire acconsente al matrimonio con il governatore spagnolo, pur amando il suo consanguineo Zamoro, capotribù peruviano, soltanto perché la nuova religione del mondo ‘civile’ promette la vita oltre la morte, e lei, che è persuasa che il suo amato sia stato ucciso dai colonizzatori, è quindi pronta ad un matrimonio cristiano per abbracciarlo nuovamente nell’aldilà.

ITALY - JUNE 06: Costume sketch by Filippo Peroni (1809-1878) for the role of Ovando in the opera Alzira, by Giuseppe Verdi (1813-1901), performed at La Scala Theatre in Milan, 1846-1847. Milan, Museo Teatrale (Scala) (Photo by DeAgostini/Getty Images)
ITALY - JUNE 06: Costume sketch by Filippo Peroni (1809-1878) for the role of Ovando in the opera Alzira, by Giuseppe Verdi (1813-1901), performed at La Scala Theatre in Milan, 1846-1847. Milan, Museo Teatrale (Scala) (Photo by DeAgostini/Getty Images)

La tensione ideologica e intellettuale sottesa al testo di Voltaire sparisce miseramente nelle mani di Cammarano (poeta tra i più abili, tra l’altro, a sfuggire alle maglie oppressive della censura borbonica): come ha scritto Julian Budden, le due ragioni d’essere della tragedia volterriana, la religione e la politica, attorno a cui si polarizza lo scontro tra la civiltà peruviana e quella spagnola, non sono quasi per niente menzionate. Gusmano, il governatore del Perù che vuole sposare Alzira, non è più un sanguinario oppressore, bensì l’ennesimo amante contrastato del melodramma italiano; Zamoro, l’eroe-assassino che ucciderà Gusmano, da nobile selvaggio che non accetta di piegare il proprio cuore e la propria religione ai voleri dell’invasore, si trasforma in una pallida caricatura di un eroe risorgimentale, un ‘Ernani latinoamericano’; Alzira diviene infine un’esangue eroina romantica, la consueta donna innamorata ma allo stesso tempo figlia devota, che sospira per la sorte di suo padre Ataliba e del suo amato, per salvare il quale è disposta alle nozze con Gusmano.

Il musicologo Paolo Gallarati ha sottolineato come la vicenda amorosa – il consueto triangolo dell’opera italiana – sia di scarso interesse, trattata con rigido schematismo, e presenti una pericolosa assenza di logica drammatica e verosimiglianza psicologica; non è difficile, pertanto, intuire le ragioni dell’insuccesso napoletano, al di là del tifo oltranzista per Mercadante di molti spettatori del San Carlo. Verdi non si era accorto dei difetti del libretto di Cammarano, né della debolezza drammatica dei personaggi, la cui identità ‘esotica’ sarebbe stata un valore aggiunto per la riuscita di un piccolo capolavoro, mentre invece fu deliberatamente ignorata, e la carica eversiva dello scontro tra universi e civiltà differenti venne riportata sui più sicuri binari del feuilleton primo-ottocentesco.

Portrait of the tenor Gaetano Fraschini (1816-1887), the first Zamoro in the opera Alzira by Giuseppe Verdi, ca 1860. Found in the collection of Bibliothèque Nationale de France. (Photo by Fine Art Images/Heritage Images/Getty Images)
Portrait of the tenor Gaetano Fraschini (1816-1887), the first Zamoro in the opera Alzira by Giuseppe Verdi, ca 1860. Found in the collection of Bibliothèque Nationale de France. (Photo by Fine Art Images/Heritage Images/Getty Images)

All’interno di questa cornice drammaturgica normalizzante non mancano dei momenti di ampio slancio melodico, in cui l’orchestrazione verdiana emerge in tutto il suo spessore sonoro e coloristico. L’aria di Zamoro, «Un Inca…eccesso orribile», in cui il capotribù ribelle rivela il suo amore per Alzira, presenta una melodia dinamica e progressiva, in cui l’intensificazione lirica e drammatica del soliloquio amoroso viene sostenuta da frequenti ‘esplosioni’ sonore a piena orchestra; pur non essendo una traslazione esotica di un cantabile che rimane squisitamente italiano, l’aria restituisce comunque alla debole partitura un momento di luce e respiro:

Scrivendo ad Andrea Maffei il 30 luglio 1845 Verdi si mostrava sicuro e soddisfatto della sua Alzira:

Ho finito l’opera anche nell’istromentale […] Non saprei dare alcun giudizio di questa mia opera, perché l’ho fatta quasi senza accorgermene e senza fatica […] Ma stia tranquillo che fiasco non farà. I cantanti la cantano volentieri e qualcosa di tollerabile ci deve essere.4

Le previsioni di Verdi erano purtroppo sbagliate: l’opera non si riprese mai, e la disastrosa replica romana nel novembre dello stesso anno ne sancì il tonfo definitivo. Scrivendo al librettista Jacopo Ferretti, che gli aveva fornito consigli e suggerimenti per migliorare Alzira, Verdi ammise – per la prima volta – di essersi accorto delle mancanze strutturali dell’opera poco prima di andare in scena al San Carlo, ma che purtroppo non c’era nulla da fare, essendo il male dell’opera radicato nelle sue viscere: «Speravo che la sinfonia» aggiunge il compositore «e l’ultimo finale rivendicassero in gran parte i difetti del resto dell’opera, e vedo che a Roma mi sono mancati…; eppure non dovevano!».5 Da qui nasce forse la leggendaria frase attribuita all’operista molti anni più tardi, quando, interrogato sull’Alzira dalla contessa Negroni Prati Morosini, sentenziò: «Quella è proprio brutta».

Teatro di San Carlo (Theatre of Saint Charles), Naples, Campania, Italy, woodcut from Le cento citta d'Italia (A hundred Italian towns), illustrated monthly Supplement of Il Secolo, Milan, April 20, 1887, year 22.
Teatro di San Carlo (Theatre of Saint Charles), Naples, Campania, Italy, woodcut from Le cento citta d'Italia (A hundred Italian towns), illustrated monthly Supplement of Il Secolo, Milan, April 20, 1887, year 22.

Forse una concomitanza di fattori ed eventi circostanziali contribuì all’insuccesso di questo dramma esotico dal colorito sanguigno e dalla forte tempra ideale: la censura borbonica nei confronti dell’originale di Voltaire, il gusto conservatore del pubblico e della critica napoletana, la scarsa consuetudine da parte di Verdi nel maneggiare i versi di Cammarano (si trattò pur sempre della loro prima collaborazione), le condizioni di salute certamente non ottimali del compositore, e infine la riluttanza a indagare a fondo una sonorità inedita ed esclusiva per il mondo Inca, da contrapporre al ben più consueto universo belcantistico europeo, qui rappresentato dagli occupanti spagnoli. La tinta esotica e il colorito indigeno emergono solo in un punto dell’opera, interamente strumentale, e che fu aggiunto soltanto alla fine perché l’impresa del San Carlo si era lamentata dell’eccessiva brevità di Alzira: la Sinfonia. Suddivisa in tre movimenti (un Andante e due movimenti veloci), essa, come sottolineato da diversi studiosi, ha pochi eguali nella produzione verdiana. Rappresenta al meglio, con i suoi guizzi sonori e i ritmi umoristici e violenti, i fraseggi bizzarri e capricciosi, quel vago colorito esotico che l’opera di Cammarano e Verdi non è mai riuscita a portare in scena. Ascoltiamone una parte:

Con Il Corsaro ci spostiamo in un’altra dimensione esotica, questa volta ambientata tra le isole del Mar Egeo e le sponde della Turchia: un immaginario orientale, denso di suggestioni fiabesche e teatro storico di sanguinose e cruente battaglie. Il poema di Byron – da cui il melodramma in tre atti è tratto – era molto popolare all’epoca: lo stesso Verdi iniziò a vagheggiare questo progetto alla fine del 1843, e lo mise da parte a causa di un altro soggetto del poeta e patriota inglese, I Due Foscari. Erano per Verdi anni di grande infatuazione byroniana, predilezione che del resto condividevano molti altri artisti, poeti e operisti. Il contratto con l’editore Francesco Lucca venne siglato il 16 ottobre del 1845: il librettista indicato dal compositore era Francesco Maria Piave – sui cui l’editore ebbe in realtà alcune riserve – e la scelta del luogo della prima rappresentazione ricadde sull’Her Majesty’s Theatre di Londra. Il Corsaro però non giunse mai nella capitale inglese: le vicissitudini e il lungo periodo di gestazione di quest’opera portarono infatti a tre conseguenze. In primo luogo, l’accrescersi graduale delle tensioni tra Verdi e l’editore Lucca, che era mal visto dal compositore per il suo eccessivo grado di autonomia nel gestire la genesi e la messinscena delle sue opere (e non solo di quelle); in seconda istanza, il crescente disinteresse di Verdi per questo soggetto e la sua conseguente maturazione stilistica e creativa, in virtù di nuove idee e nuovi soggetti che ne occuparono tutte le energie (pensiamo soprattutto ai Masnadieri e al primo Macbeth); infine, l’abbandono della cornice londinese per il gran debutto, e il solitario epilogo di questa così bistrattata opera, che debuttò soltanto il 25 ottobre del 1848 – tre anni dopo la firma del contratto – al Teatro Grande di Trieste, nell’indifferenza ormai totale del suo autore, che rimase a Parigi e lasciò che a occuparsene fosse il tanto odiato editore, con cui oramai il divorzio era consumato. Trieste accolse l’opera con freddezza, e il titolo fu ritirato dopo la terza serata.

A ship sinks during a storm, last scene from Le Corsaire at the Paris Opera house, drawing by Gustave Dore, engraving by Pisan, illustration from the Journal pour rire, Journal Amusant, No 14, April 5, 1856. Digitally colorized image.UNSPECIFIED - MAY 18: Set design by Pietro Bertoja (1828-1911) for the fourth act of Il Corsaro (The Corsair), opera by Giuseppe Verdi (1813-1901). Venice, Museo Correr (Art Museum) (Photo by DeAgostini/Getty Images)
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A ship sinks during a storm, last scene from Le Corsaire at the Paris Opera house, drawing by Gustave Dore, engraving by Pisan, illustration from the Journal pour rire, Journal Amusant, No 14, April 5, 1856. Digitally colorized image.

È interessante, in questa gestazione così sofferta, il ruolo inconsapevole che un’opera minore – considerata sacrificabile dallo stesso Verdi – svolse nel mutamento di stile e di gusto del suo autore, ma che assunse anche, nonostante tutto, all’interno di un anno cruciale, il 1848, punto di svolta storico-politico per l’Italia e per tutto il continente europeo.

Come abbiamo visto, dopo l’infatuazione per le opere di Lord Byron, Verdi stava volgendo l’attenzione al grande teatro di Schiller e Shakespeare: un segno inequivocabile di mutamento estetico che sarebbe poi culminato nell’interessa per il grande romanzo borghese coevo, ispiratore del capolavoro di Traviata. Il primo Romanticismo, con i suoi ideali di libertà, amore fervente e patriottismo stava cedendo molto lentamente il passo a una riflessione più intimistica, a un’indagine dell’universo morale ed etico dei personaggi, che nelle opere di Verdi da inconsapevoli eroi degli anni caldi del Risorgimento stavano divenendo icone tragiche, dotate di maggiore complessità e stratificazione psicologica. Tutto ciò fu anche il riflesso dell’esplosione rivoluzionaria contro l’ordinamento monarchico restaurato in tutta Europa dopo le guerre napoleoniche, che infiammò diverse città e nazioni a partire dal famoso marzo 1848. Verdi lasciò Parigi – dove a fine febbraio il Re aveva abdicato ed era stata proclamata la Seconda Repubblica – per recarsi a Milano, liberata dall’occupazione austriaca nelle gloriose Cinque Giornate, e lì incontrò nuovamente Mazzini.

L’entusiasmo del compositore per la fiammata rivoluzionaria fece cadere definitivamente nell’oblio quel povero Corsaro, che però andò in scena a Trieste quando la controffensiva aveva già vinto: la prima guerra di indipendenza si era infatti arenata nella battaglia di Custoza, in cui le truppe austriache avevano costretto l’esercito piemontese alla ritirata. Quando l’opera va in scena il potere asburgico è di nuovo saldamente in sella in tutto il Lombardo-Veneto.

L’esotismo del Mar Egeo e dei suoi avventurosi corsari risultò quindi ancora una volta sfocato, e in questo caso persino fuori tempo massimo. Verdi aveva ormai altre ambizioni e altri immaginari, ma la musica che ha lasciato in questa negletta partitura ha tutto un altro spessore rispetto a quella della sorella maggiore Alzira.

L’intreccio drammatico dell’opera di Byron è senz’altro privo della tensione ideale che si poteva trovare nella tragedia di Voltaire: il capo dei Corsari, Corrado, abbandona la sua adorata Medora nell’isola dell’Egeo dove vivono insieme per andare a sfidare il tirannico Seid, pascià turco che ama ardentemente, non ricambiato, Gulnara. Durante un banchetto a corte, Corrado e i suoi Corsari fanno irruzione e scatenano la battaglia, ma il pascià ha la meglio e decide di condannare a morte Corrado, il quale viene salvato da Gulnara, invaghitasi di lui. Il corsaro viene allora portato in prigione, dove Gulnara gli offre la libertà a condizione che la liberi dall’odiato Seid, uccidendolo. Corrado rifiuta in nome dell’onore e sarà dunque Gulnara stessa ad uccidere il pascià, per poi fuggire insieme al corsaro verso l’isola. Medora, nel frattempo, è in fin di vita, poiché, certa di non poter mai più rivedere l’amato, si è avvelenata. Una volta che Medora si è spenta, Corrado, ignorando le suppliche di Gulnara che gli confessa il suo amore, si uccide gettandosi in mare dalla scogliera.

Il tono esotico e fiabesco svanisce e sfuma anche in quest’opera dietro alle rigide – e poco estrose, quando non banali – regole formali del genere: l’energia drammatica, anche in questo caso potenzialmente presente sia nelle figure del Corsaro e del pascià, sia nei due così differenti caratteri femminili, in figure insomma ‘estranee’ al consueto e ordinario immaginario europeo, avrebbe potuto far scorrere una linfa nuova sulle scene del Corsaro, e invece cede a una normalizzazione. Tanto più pesante in quanto l’opera si presenta come ‘esercizio di stile’, frettolosamente archiviato dal suo stesso autore.

Un vago colorito orientaleggiante è presente, pur come semplice sfumatura di passaggio, nelle fioriture della prima aria di Medora, quando la giovane infelice – che resta comunque una comprimaria, non certo il primo soprano – si accompagna con l’arpa intonando un mesto motivo, oscuro presagio delle sventure imminenti. Ascoltiamo quest’aria: 

Anche l’harem del pascià offrì a Verdi lo spunto per una sonorità esotica e orientaleggiante: nella scena che apre il secondo atto, in cui si svolge la battaglia tra corsari e musulmani, il coro di odalische porge alla prediletta Gulnara sete preziose e gemme, mentre i timbri acuti e scintillanti di percussioni e fiati (specialmente dell’ottavino) restituiscono, pur in modo manieristico, una notevole suggestione coloristica. Ascoltiamo questo coro introduttivo che sembra il primo seme da cui molto più avanti fioriranno i ballabili ciprioti del terzo atto di Otello

Non possiamo che concludere questo viaggio con il numero più famoso di questa sfortunata – ma allo stesso tempo emblematica – opera giovanile verdiana: il duetto tra Corrado e Gulnara del terzo atto. Il Corsaro è stato portato in prigione e in apertura di scena una lugubre melodia orchestrale ci introduce nell’oscurità del carcere, in uno dei momenti più alti del teatro verdiano. Gulnara giunge per liberarlo, ma anche per assoldarlo come assassino: 

In questo duetto, in cui i due personaggi si ergono in tutta la loro statura drammatica, la melodia del giovane Verdi travolge ogni pedante prassi esecutiva di tradizione, ogni ‘solita forma’, dando vita ad una solidità espressiva che lascia intravedere quel punto di svolta stilistico e quella maturità artistica che finalmente lo condurrà fuori dagli ‘anni di galera’.


1 Lettera di Giuseppe Verdi a Vincenzo Flauto, 1° novembre 1849, ora in I Copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Stucchi Ceretti, Milano 1913, p. 86.
2 Lettera di Giuseppe Verdi a Vincenzo Flauto, 14 e 29 maggio 1845 ora in Giuseppe Verdi, Lettere, a cura di Eduardo Rescigno, Einaudi, Torino 2012, p. 120 e in I Copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Stucchi Ceretti, Milano 1913, p. 12.
3 Lettera di Giuseppe Verdi a Salvadore Cammarano, 23 maggio 1844, ora in I Copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Stucchi Ceretti, Milano 1913, p. 429.
4 Lettera di Giuseppe Verdi ad Andrea Maffei, 30 luglio 1845, ora in I Copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Stucchi Ceretti, Milano 1913, p. 431.
5 Lettera di Giuseppe Verdi a Jacopo Ferretti, 5 novembre 1845, ora in I Copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Stucchi Ceretti, Milano 1913, p. 432.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Julian Budden, Le opere di Verdi, 3 voll., EDT, Torino, 1985;
Paolo Gallarati, Verdi, Il Saggiatore, Milano, 2022;
Massimo Mila, Verdi, Rizzoli, Milano, 2000;
Giuseppe Verdi, Lettere, a cura di Eduardo Rescigno, Einaudi, Torino, 2012.