Dopo sedici anni di silenzio operistico, dalla sfolgorante première di Aida al Teatro dell’Opera del Cairo, e dopo tredici anni di assenza dalle scene, se si esclude dal conteggio complessivo il rifacimento del Simon Boccanegra, l’anziano Verdi tornava a comporre per il teatro musicale. La sua nuova opera, l’Otello, era così radicalmente differente rispetto al linguaggio utilizzato sino a quel momento, che lasciò senza fiato il pubblico delle grandi occasioni convenuto alla Scala, il 5 febbraio del 1887. L’impianto sonoro che sostiene l’intera opera, dalla scena della tempesta sino all’atroce morte di Desdemona e alla sua ultima, inutile preghiera, appartiene ad un Verdi inusuale e inedito. Non si trattava di un esercizio di bravura stilistica, bensì di un nuovo linguaggio lirico: l’affievolirsi se non addirittura il tramonto definitivo della melodia in nome di un espressionismo che Massimo Mila ha descritto come confinante col rumore, era il diretto prodotto di un’inquietudine profonda e di un tormento interiore che laceravano l’animo del compositore.
Lo sfaldamento della compagine sonora, che la pur raffinatissima orchestrazione dell’Otello presenta, è così evidente che l’autorevole musicologo Roman Vlad vi ha letto un’anticipazione di certi effetti di dissociazione timbrica tipici del Wozzeck di Berg.
Ma come era giunto Verdi ad una svolta così radicale nella propria visione artistica e compositiva, dopo aver riflettuto seriamente sulla possibilità di lasciare per sempre le scene musicali, curando solo l’avvenire del suo ultimo capolavoro, Aida? La decisione di comporre la musica di Otello, su libretto di Arrigo Boito, fu in realtà il frutto faticosissimo di una sottile trama tessuta per anni dall’editore milanese Giulio Ricordi. Anche il drammaturgo padovano, ansioso di collaborare con Verdi, si spese molto in tal senso: il capolavoro della maturità artistica di Verdi non sarebbe stato possibile senza la storia, pur così tormentata e accidentata, della crescente amicizia che portò il musicista scapigliato e l’anziano nume tutelare del melodramma italiano a una sostanziale identità di vedute.
Le caratteristiche della personalità culturale di Boito che sin dai primordi della loro relazione avevano suscitato l’interesse di Verdi, erano anzitutto l’abilità nella versificazione, ossia la maestría del musicista e poeta scapigliato nel manipolare la struttura metrica e ritmica del verso poetico. Questa abilità affascinava Verdi non tanto sul piano linguistico o letterario, ma per i suoi importanti effetti sul versante drammaturgico. Ciò che insomma era oggetto di interesse era la capacità di Boito di saper organizzare in modo efficace e suggestivo la materia drammatica, e di condensare in modo appropriato la fonte letteraria nello spazio, spesso angusto e ristretto, di un libretto d’opera.
Non a caso, il primo contatto tra i due artisti, all’apparenza così diversi e lontani, fu proprio una commissione poetica: si tratta del testo dell’Inno delle Nazioni, che fu poi presentato a Londra, con musica di Giuseppe Verdi, in occasione dell’Esposizione Universale del 1862. Tale primo incontro avvenne a Parigi, dove Boito si era recato con l’amico Franco Faccio, avendo entrambi ricevuto, come brillanti studenti del Conservatorio milanese, una borsa di studio per trascorrere un periodo nella capitale europea della musica: in quel momento, infatti, in città erano condensati i migliori compositori dell’epoca, da Gounod a Rossini, da Berlioz allo stesso Verdi. In seguito a questa occasionale collaborazione, Verdi fece anche dono al suo futuro librettista di un orologio, scrivendogli queste poche righe: «Mentre vi ringrazio del bel lavoro fattomi, mi permetto di offrirvi come attestato di stima, questo modesto orologio. Aggraditelo di cuore, come io di cuore ve lo offro. Vi ricordi il mio nome, ed il valore del tempo».1 Se risposta ci fu, come è altamente probabile, purtroppo è andata perduta: ma due anni dopo la cantata londinese, rievocando la dedica verdiana che dovette commuoverlo e renderlo fiero, Boito mandò al compositore un esemplare della propria favola polimetrica, Re Orso, cui aggiunse queste poche parole: «A Giuseppe Verdi, perché si ricordi il mio nome».
Il 27 febbraio del 1869 andò poi in scena alla Scala di Milano la versione ultima de La Forza del destino: in quel frangente, Giulio Ricordi iniziò a sognare un Nerone musicato da Verdi su libretto di Boito. Il giovane editore musicale cominciò quindi a tessere la sua tela, in attesa dell’occasione più opportuna, ben consapevole degli scontri e delle numerose incomprensioni che i due compositori avevano avuto in passato. Il 26 gennaio del 1871, mentre la testa di Verdi era interamente occupata dalla messinscena di Aida, e quella di Boito dalla imminente presentazione sul palcoscenico scaligero del suo Amleto, Giulio Ricordi scrisse una lunga lettera al compositore, in cui vennero compiutamente esplicitati i presupposti per un’effettiva collaborazione tra i due artisti:
La conclusione si è che Boito si reputerebbe l’uomo il più felice, il più fortunato se potesse scrivere il libretto del Nerone per Lei: e rinuncerebbe subito e con piacere all’idea di fare la musica.[…] Io so ormai qual sia la di lei parte nella fattura di un libretto, e Boito sotto la di lei direzione, farebbe bene, molto bene!...comecché difficilmente possa trovarsi un verseggiatore più splendido e più elegante di lui, nella forma e nella sostanza.[…] Peccato ch’io non possa più oltre dilungarmi, che avrei molto a dirle intorno a molte preziose confessioni che il Boito, in un momento di entusiasmo provato all’idea di fare per lei il Nerone, mi fe’ stamane intorno alle sue qualità musicali.2
L’editore musicale non esitò quindi a sacrificare il progetto boitiano di un’intera esistenza, quello di essere autore totale della tragedia neroniana, pur di avviare una qualsiasi collaborazione tra i due musicisti, consapevole, con fiuto da sapiente imprenditore, che insieme avrebbero potuto produrre un capolavoro. Ma dopo il sublime trionfo di Aida, il cinquantottenne Verdi sembrava persuaso a dire per sempre addio alle scene teatrali, e a tutto sembrava pensare fuorché a musicare un libretto di Boito. Occorrerà infatti aspettare sino al 1879 per avere una decisiva svolta nei rapporti tra i due protagonisti, i quali sarebbero poi rimasti per sempre ottimi amici e confidenti. Nella primavera di quell’anno, Boito si recò a trovare Verdi su sollecitazione dello stratega Ricordi, che aveva un nuovo progetto in mente, su cui molto puntava: tale progetto non poteva che essere il libretto di Otello, sul quale il librettista aveva già iniziato probabilmente a lavorare. Alla fine di giugno, in occasione di un’esecuzione della sua Messa da Requiem alla Scala, Verdi si trovava a Milano, e partecipò a un pranzo con Giulio Ricordi e le rispettive consorti, cui presero parte anche Franco Faccio e pochi altri intimi amici. In questa riunione conviviale si parlò sicuramente del progetto di Otello, e fu questa la circostanza propizia che permise all’idea di prendere forma. Boito iniziò quindi a lavorare freneticamente alla stesura dei primi atti del «Cioccolatte», lemma colloquiale che in molte lettere veniva utilizzato per designare l’Otello; nel novembre del 1879, infine, a libretto completato, Boito poté spedire il frutto del suo lavoro presso la residenza di Verdi; da lì sarebbe poi uscito con molte modifiche e integrazioni, ma predestinato a diventare l’opera lirica che conosciamo. Opera, come detto in apertura, che oltre a suggellare un sodalizio artistico tra Verdi e Boito – così tardivo poiché impossibile a pensarsi prima – costituirà anche un incredibile spartiacque nella storia melodrammatica italiana e nella psicologia collettiva dell’Italia di fine Ottocento.
Se la scelta del soggetto non fu casuale, l’interpretazione e il significato che il poeta e il compositore vollero attribuire all’accecato e furioso Otello lo fu ancora meno, in quanto emblema e sintesi perfetta del disorientamento e del naufragio valoriale cui soccombeva passivamente l’uomo postrisorgimentale in un’Italia che aveva così faticosamente raggiunto il traguardo unitario.
Come punto di partenza della nostra riflessione dobbiamo sempre tenere a mente che l’Otello è opera verdiana di una straordinaria potenza allegorica, cui viene affidato un preciso messaggio simbolico come testimonianza artistica di un profondo mutamento in atto nella psicologia collettiva della società italiana. In questo melodramma, l’autore, giunto a una maturità artistica e anagrafica notevole, si distacca radicalmente, come anticipato, dal proprio linguaggio musicale tradizionale, stravolgendo l’intero impianto formale che pure aveva accompagnato sempre le opere precedenti. Ad essere spazzate via non sono soltanto le concezioni canoniche di melodia e armonia, ma anche quelle ‘forme fisse’ dell’opera italiana, ossia le varie cavatine e cabalette, i cantabili o i tempi di mezzo, i lunghi concertati in finale d’atto: tutto ciò, insomma, che costituiva l’ossatura formale del melodramma verdiano (e dell’opera italiana ottocentesca). Su questa rottura con il passato Verdi trovò un prezioso alleato nello sperimentatore Boito.
Se, come ha scritto il musicologo italiano Massimo Mila, passarono diversi minuti e ben 94 battute della partitura prima che il pubblico milanese convenuto alla Scala quel 5 febbraio 1887 potesse ascoltare, intonata dal coro a tutta forza sulle parole: «Dio, fulgor della bufera!», qualcosa di simile a ciò ch’era comunemente inteso per una melodia, ciò stava a significare che l’opera italiana stava cambiando completamente i suoi presupposti e obiettivi. L’opera del tardo Verdi non cercava più di solleticare o mobilitare uditori ampi e popolari, né intendeva mostrare in scena esempi positivi cui fare riferimento, o leggi morali e codici valoriali in cui tutti potevano riconoscersi. Al contrario, la tolleranza verso ardite sperimentazioni armoniche e l’emancipazione di dissonanze, o di fraseggi e vocalità urlate, sbrindellate e irregolari nella loro configurazione melodica, prive anche del più vago ricordo belcantistico, era la palese dimostrazione che la scelta di una delle tragedie shakespeariane più umane e devastanti non fu casuale. Al dramma della gelosia e dell’incomprensione della realtà venne affidato un messaggio, una valenza simbolica e metaforica, costituita da immagini e suoni, che svelavano quel tormento interiore di Verdi e Boito, o più semplicemente, il loro personale giudizio sulla realtà circostante.
Nella gelosia ossessiva di Otello, e nel suo passivo soccombere di fronte alle astute manipolazioni di Jago, era nascosta una metafora sottile, quella di un uomo, o ancora meglio di un eroe tragico, che rispetto ai suoi illustri predecessori aveva perso ogni controllo della realtà e ogni capacità affermativa di un ordine valoriale razionale, non avendo più un saldo appiglio cui appoggiarsi come punto di riferimento. Se nel melodramma risorgimentale italiano l’eroe posto al centro della vicenda poteva esercitare un’azione ordinatrice sulla realtà circostante – e di questa idea, si trovava una suggestiva eco, a esempio, negli scritti di un padre della patria come Giuseppe Mazzini –, in Otello è proprio questa capacità modellizzante e idealizzante a venire meno, perché il protagonista parla il linguaggio dell’uomo della decadenza europea.
Se quindi Otello è il simbolo universale dell’uomo della decadenza, e se tutte le immagini simboliche ed eroiche che il Risorgimento italiano aveva creato vengono spogliate e depauperate del loro potenziale e si degradano nell’ossessiva gelosia e ferocia di cui il Moro è vittima, allora il nichilismo qui prepotentemente espresso da Verdi e Boito non poteva coinvolgere solo la natura drammatica e musicale del personaggio ‘negativo’ di Jago, ma l’intera opera, in cui nulla della sintassi passata è più riconoscibile, a cominciare dalle ‘forme fisse’ del melodramma italiano.
Certamente il centro propulsore di questa tempesta pessimistica è il diabolico alfiere di Otello. Jago è uno scellerato integrale, una personalità malvagia che persegue la distruzione di ogni relazione umana, scegliendo il Male non per una motivazione etica ma come scelta naturale, spontanea, priva di ogni giustificazione morale. La sua parola è ipnotica, il suo canto affabulatorio, e sotto il suo giudizio la realtà diventa ambigua e scivolosa, perdendosi dentro un abisso di relatività in cui nessuno è più in grado di discernere il falso dal vero. L’apoteosi del nuovo linguaggio musicale verdiano non a caso si raggiunge nella sua professione di fede al negativo, una preghiera infernale in cui Jago si vota ad un dio beffardo e cinico, incapace di creare ma abile soltanto nel distruggere.
Ascoltiamo il Credo di Jago dal secondo atto dell’opera:
Jago avvolge nella sua ragnatela malefica e perturbante anche il protagonista dell’opera: il giuramento che chiude il secondo atto («Sì, pel ciel marmoreo giuro») investe la struttura melodrammatica sia sul piano formale che su quello contenutistico: nel vedere Otello in ginocchio, cui si affianca Jago stesso per insistere nella sua opera di persuasione e continuare a inoculare il suo veleno, il melomane più esperto poteva forse intuire di trovarsi di fronte ad una cabaletta, ossia quella sezione conclusiva di un’aria o di un duetto; ma allo stesso tempo si rendeva immediatamente conto che si trattava di un residuato morente di quella forma drammatica.
Se nell’opera risorgimentale la cabaletta era il momento conclusivo di un’azione scenica, nel giuramento di Otello predomina la dimensione semantica, a scapito di quella formale, e l’esito cui si giunge è la definitiva vittoria di Jago, che da questo momento in poi diviene il dominatore indiscusso della fragile psiche del Moro. A cadere rovinosamente nell’abisso della disillusione e del pessimismo non sono così solo le certezze valoriali di cui si era nutrito l’antenato di Otello sulla scena del teatro musicale; con esse precipitano infatti anche le strutture convenzionali e le regole drammatico-musicali che avevano da sempre costituito una premessa indiscutibile in tale repertorio. Non troviamo più l’enfasi conclusiva, lo slancio propositivo e il fiero atteggiamento di sfida che in passato un giuramento avrebbe incarnato sul palcoscenico lirico, ma è invece presente uno scenario inquietante e sdrucciolevole. Il terreno crolla sotto i piedi di Otello, insieme al franare cromatico delle armonie per triadi che concludono la scena. Questi accordi che scivolano lentamente verso una conclusione di per sé disperata e distruttiva, coprono l’arco di una quarta discendente cromatica, e sono uno dei numerosi sigilli sonori del veleno di Jago. Ascoltiamo la parte finale del giuramento:
L’ultimo esempio è tratto dal famoso tema del bacio, l’unico frammento melodico che sentiamo risuonare più di una volta nel corso dell’opera, sia alla fine del duetto d’amore tra Otello e Desdemona nel primo atto (dove già comprendiamo che i due personaggi non riescono a comunicare, infatti non cantano mai assieme), sia in conclusione del quarto atto, quando Desdemona giace ormai priva di vita sul proprio letto. A suggellare il proprio trionfo, prima come semplice avvertimento ai due amanti che credono ancora di parlare la stessa lingua e non si avvedono di essere già precipitati nell’incomunicabilità e nell’incomprensione reciproca, e più avanti come vero e proprio grido di vittoria, la presenza demoniaca di Jago si esprime in una squarciante irruzione nel tessuto armonico, che ci regala un esito imprevisto e inatteso, e rompendo la patina illusoria ci fa comprendere meglio quanto realmente stia avvenendo. A livello armonico si tratta di una rapida incursione del Do # all’interno della tonalità d’impianto di Mi Maggiore, poco prima che Otello chieda il terzo e ultimo bacio alla sua sposa.
La dissonanza di Jago esprime tutta la sua ostentata doppiezza, la finzione con cui egli esibisce comportamenti benevoli, che certamente non gli appartengono, con estrema disinvoltura. La melodia, di cui è parca l’intera opera permeata da un espressionismo urlato, diventa disponibile, raramente, ad uso di parodia. Il tema del bacio rivela quindi tutta la sua inconsistenza e debolezza, poiché il linguaggio tradizionale soccombe alle ‘camuffate’ dissonanze del veleno irrazionale che devasta i protagonisti di questa tragedia. Ascoltiamo la preghiera implorante di Otello alla sua ormai esanime sposa:
Vi sono ovviamente moltissimi momenti topici nell’opera verdiana in cui il veleno dell’alfiere emerge in maniera lampante, ma anche quando esso è occultato e quasi impercettibile è comunque presente. Nella grande scena madre del terzo atto, ad esempio, vediamo Lodovico, l’ambasciatore veneziano, giungere a Cipro per richiamare in patria Otello e la consorte; egli consegna al generale delle armate venete il dispaccio del Doge, in cui si nomina come successore del Moro il destituito Cassio, per la cui causa tanto si adopera Desdemona. Rispondendo all’ambasciatore che si stupiva dell’assenza del giovane capitano, Jago afferma prontamente che Otello è adirato con lui; allora Desdemona pronuncia una flessuosa e dolcissima frase melodica discendente, con quel canto lirico effusivo e affabile che la contraddistingue, sulle parole «Credo che in grazia tornerà». A questo punto il furioso Otello, preda di una frenetica gelosia, senza distogliere lo sguardo dal dispaccio che sta leggendo domanda alla giovane donna se è sicura che ciò avverrà, ma il suo borbottio non giunge chiaro alle orecchie di Desdemona, e tutti gli astanti pensano che egli stia semplicemente declamando ad alta voce il messaggio. A questo punto Jago ripete la stessa frase appena intonata da Desdemona, appoggiandosi però su una serie di insidiosi cromatismi, che sono un altro contrassegno musicale del suo veleno infernale.
Come abbiamo visto, il pessimismo di Verdi e Boito si esprime in quest’opera attraverso un linguaggio musicale nuovo e sperimentale, distaccandosi da quanto creato sino a quel momento: ma il nichilismo emerge anche nella consapevolezza della caduta di ogni sogno ideale, nella rovina di quell’eroe risorgimentale che sia Boito che Verdi avevano conosciuto. Da tutto ciò i due artisti non potevano trarre alcun piacere, né assumere un atteggiamento di serena accettazione. Caduti i sogni, le speranze, le promesse di riscatto e libertà, il veleno di Jago, sembrano volerci dire i due artisti, è sempre lì in attesa di colpire. Ma in Verdi e in Boito rimane una flebile, debole, ma ancor viva speranza consegnata al testamento artistico di Otello: che l’umanità possa trovare finalmente l’antidoto contro quel male irrazionale che silenziosamente diffonde il suo contagio.
1 Lettera di Giuseppe Verdi ad Arrigo Boito, Parigi, 29 marzo 1862; ora in Carteggio Verdi-Boito, a cura di Mario Medici e Marcello Conati, Parma, Istituto di Studi Verdiani, 1979, p. XL.
2 Lettera di Giulio Ricordi a Giuseppe Verdi, Milano, 26 gennaio 1871; ora in Carteggi verdiani, a cura di Alessandro Luzio, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, vol. 4, 1947, p. 187.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Julian Budden, Le opere di Verdi, 3 voll., EDT, Torino, 1985;
Paolo Gallarati, Verdi, Il Saggiatore, Milano, 2022;
Massimo Mila, Verdi, Rizzoli, Milano, 2000;
Giuseppe Verdi, Lettere, a cura di Eduardo Rescigno, Einaudi, Torino, 2012.