La diffusione delle opere di Verdi s’inserisce nella lunga tradizione di presenza dell’opera italiana alla Corte e nei maggiori teatri russi, sulla quale occorre soffermarsi necessariamente per comprendere la complessità della ricezione delle sue opere nel contesto russofono.
Questa tradizione risale ai tempi della zarina Anna Ioannovna, che nel 1731, appena salita al trono, prese una serie di iniziative per avere al servizio della propria Corte – com’era allora per la maggior parte delle corti principesche italiane ed europee – una compagnia di cantanti, un corpo di ballo e un’orchestra che fossero in grado di celebrare la sua persona attraverso la forma di rappresentazione scenico-musicale di maggior successo nel panorama di allora. L’iniziativa si poneva quindi nel segno di una sorta di Occidentalismo, sulla scia già solcata da Pietro I, e poi portata avanti entusiasticamente dalle zarine Elisabetta – sua figlia – e Caterina II. L’opera diffusa nelle corti europee dell’epoca era allora modellata sui libretti di Pietro Metastasio (Pietro Antonio Trapassi, 1698-1782), attivo a Vienna come poeta cesareo negli stessi anni in cui regnò Anna, e noto alla storia della musica come riformatore della drammaturgia dell’opera: questi libretti, divisi in tre atti e organizzati sulla base dell’alternanza tra arie e recitativi, inscenavano vicende tratte il più delle volte dalla storia antica, e collocate in regioni geograficamente lontane dall’Europa, il che conferiva loro valenza eterna e universale, proprio perché scissa da contingenze specifiche.
Questi soggetti avevano come protagonisti membri di famiglie regnanti, coinvolti in vicende complesse che intersecavano due fattori principali: quello dell’amore e della felicità individuale, privata, e quello del bene pubblico, spesso contrapposto al precedente a causa di complessi antefatti. Il bene dello Stato trionfava immancabilmente, e questo avveniva grazie alla capacità dei personaggi principeschi di mettere in atto tutte le virtù che li caratterizzavano: non solo intelligenza ed empatia, ma soprattutto rispetto per il potere costituito e clemenza della massima autorità nei confronti dei sudditi, anche qualora questi si rivelassero immeritevoli: è il caso della celeberrima Clemenza di Tito, già data a Vienna, ma preparata per Mosca nel 1742 per l’incoronazione di Elisabetta Petrovna. Ecco, quindi, che sin da subito anche sul suolo russo si instaura un legame fortissimo tra scena musicale e autorità politica: la scena e gli artisti che vi agivano erano concepiti come uno strumento di propaganda, e si attivavano infatti in occasione delle maggiori festività statali, come incoronazioni o loro anniversari, compleanni e onomastici delle imperatrici, matrimoni dinastici, importanti trattati di pace. Questa caratteristica vicinanza della vita teatrale alla corte russa, definitasi sin dagli esordi settecenteschi, è ancora ben visibile se analizziamo gli elementi grafici che compongono il logo (anche odierno) del Teatro Mariinskij di Pietroburgo, che di questa tradizione è erede: una lira sormontata da una corona, a segnalare la funzione non solo di intrattenimento, ma anche propagandistica del teatro musicale, che sempre fu legato a doppio filo con la Corte e la persona del sovrano. Questa funzione si manterrà viva fino almeno al 1881-82, quando l’istituzione dei Teatri Imperiali, nata dalla prima compagnia d’opera italiana presente sul territorio russo e destinata a inglobare e gestire tutte le attività performative russe in epoca imperiale, verrà privata – da Alessandro III, ma l’iniziativa aveva già preso piede con il suo predecessore Alessandro II – del monopolio sugli spettacoli, concedendo all’iniziativa privata lo spazio di organizzare spettacoli nell’ambito delle arti performative. Prima dell’eliminazione del monopolio imperiale, la Corte russa gestiva gli spettacoli direttamente; dall’inizio del regno di Nicola II tale gestione avveniva attraverso il Ministero della Corte, al punto che gli artisti venivano ingaggiati a chiamata, quasi direttamente dal sovrano in persona: questi facevano capo a un maestro di cappella, un compositore che aveva tra le proprie responsabilità la gestione del cast necessario a ricoprire tutte le parti, preparare gli spettacoli anche dal punto di vista registico, dirigere l’orchestra durante le recite ma soprattutto comporre la musica nelle occasioni sopra menzionate.
A partire dal tempo in cui la prima compagnia fu istituita a corte da Anna Ioannovna e sino all’Ottocento inoltrato, nella posizione di maestro di cappella alla corte russa si alternarono artisti importanti, tra i quali Francesco Araja fu forse – oltre che il primo – il più longevo del XVIII secolo, essendosi fermato in Russia almeno sino al 1759; il maestro napoletano fu seguito da artisti di grande levatura invitati da Caterina II: Baldassarre Galuppi, Tommaso Traetta, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa, Giuseppe Sarti, Vicente Martìn y Soler – che se non era italiano di origini (era nativo di Valencia), pure lo fu quanto a educazione ed esperienza artistica (vissuta tra Napoli e Milano) – fino ad arrivare al veneziano Catterino Cavos (1777-1840), che giunse in Russia per rivestire questa posizione, per poi passare a dirigere la compagnia nazionale russa fino al 1840.
Anche quando, per ragioni essenzialmente finanziarie, Caterina richiese la liquidazione della compagnia italiana tra il 1790 e il 1791, l’amore del pubblico russo – un pubblico che naturalmente era ancora ristretto a un’élite su base di rango e censo – non venne meno, al punto che a più riprese alcuni nobiluomini si fecero personalmente carico di sostenere finanziariamente e logisticamente la produzione di opere italiane nelle due capitali. Questo interesse è dimostrato anche dai fatti successivi, che ci conducono alle soglie del contesto che vide la penetrazione dell’opera verdiana in Russia. Tra il 1791 e il 1843, mentre compagnie finanziate privatamente da figure vicine alla Corte (una valga per tutti: Nikolaj Borisovič Jusupov, 1750-1831, che era direttore dei Teatri Imperiali al momento della liquidazione dell’Opera Italiana), svariate proposte furono avanzate da aristocratici moscoviti e pietroburghesi per il ripristino di una compagnia di Corte nelle due capitali, mentre il maestro Cavos si occupava di allestire con cantanti russi il repertorio italiano, proponendo opere dei maggiori belcantisti della Penisola, Gioachino Rossini e Vincenzo Bellini. Se i suddetti tentativi non andarono a buon fine a causa dell’impegno di Alessandro I sul fronte delle guerre napoleoniche, fu Nicola I a rinsaldare il presente con il passato: dopo che un suo emissario aveva formato direttamente in Italia una compagnia che fu attiva a Pietroburgo alla fine degli anni Venti, lo zar si attivò personalmente nella questione, chiedendo al tenore Giovanni Battista Rubini (1794-1854) di ingaggiare un gruppo capace di ripristinare a Pietroburgo i fasti del Settecento, quando la “Palmira del Nord” si configurava come un centro di produzione operistica a livello transnazionale.
Questa compagnia incluse alcuni dei maggiori artisti dell’epoca, come il baritono Antonio Tamburini, Pauline Viardot Garcìa – sorella della celebre Maria Malibran –, cui in anni successivi succedettero Erminia Frezzolini, Mario (Giovanni De Candia), e poi cantanti più prettamente verdiani come Achille De Bassini, Angiolina Bosio, Camillo Everardi con la moglie Georgette, Constance Nantier-Didiée, Francesco Graziani e Caroline Barbot. Molti sono i nomi, e molti altri sarebbero da citare, importanti innanzitutto perché furono in prima istanza i cantanti a rendersi veicolo della penetrazione e circolazione delle opere verdiane in Europa, e in Russia in particolare. Essi rappresentarono un importante volano, innanzitutto perché al tempo di Verdi vigeva ancora la prassi di concepire le opere secondo le precise caratteristiche vocali e attoriali, di presenza scenica, dei virtuosi cui era destinata la prima esecuzione, ma anche perché, proprio in virtù di questa prassi, i cantanti stessi a loro volta venivano ingaggiati in base ai ruoli che sapevano interpretare meglio, e sostenevano particolarmente l’allestimento dei titoli che comprendevano parti a loro congeniali. Come fu per quelli del Belcanto di Rossini, Bellini e Donizetti (Rubini fu cantante belliniano per eccellenza), il loro apporto fu quindi fondamentale nella ricezione dei titoli verdiani, a maggior ragione se si pensa all’attenzione del pubblico che i singoli artisti sapevano convogliare su di sé.
Eppure, il primo contatto con il repertorio verdiano avvenne non sui palcoscenici di Pietroburgo e Mosca, dove a breve torneremo, ma attraverso una terza linea di penetrazione che passò per la città di Odessa. In questa città, fondata nel 1794 dall’ammiraglio spagnolo José de Ribas, da secoli si era consolidata la presenza italiana, dovuta al ruolo della regione nel commercio internazionale sin dai tempi delle Repubbliche Marinare. Il carattere cosmopolita della città fece sì che all’inizio del XIX secolo la comunità italiana contribuisse prima alla costruzione di un edificio teatrale, e poi all’organizzazione di allestimenti operistici cui poté assistere lo stesso Puškin, che tra il 1820 e il 1824 si trovò in questa città, e che ne avrebbe fissato i riflessi in alcune delle stanze destinate al suo Evgenij Onegin:
Presto per l’Opera è già ora:
c’è l’incantevole Rossini,
Orfeo adorato in tutta Europa.
Non bada ai critici severi,
ma sempre uguale e sempre nuovo,
lui spande il suono e questo ferve,
fluisce e arde come un bacio,
un bacio tutto voluttà,
fiamma d’amore giovanile,
come l’Ay, lo spumeggiante,
coi suoi zampilli d’oro fino….
Ma si può al vino, miei signori,
paragonare il do-re-mi?
Ma che, son solo lì gli incanti?
E la lorgnette che sempre indaga?
E quegli incontri in camerino?
La prima donna? Ed il balletto?
E il palco in cui, giovane e bella,
brilla la moglie di un mercante
piena di sé e del suo languore,
da schiavi in folla circondata?
La donna ascolta e non ascolta
la cavatina, le preghiere,
scherzi a metà con le lusinghe…
Dorme in un canto suo marito,
nel dormiveglia grida: «Fuori!»,
sbadiglia e torna poi a russare.
Tuona il finale; escono tutti
con chiasso e in fretta dalla sala;
la folla corre nella piazza
al luccichio di lumi e stelle.
Accenna a un motivetto allegro
appreso in modo involontario,
felice il figlio dell’Ausonia,
e urliamo noi il recitativo.
Ma è tardi. Odessa dorme calma.
La notte muta è senza vento
e tiepida. La luna è sorta,
un velo trasparente e lieve
avvolge il cielo. Tutto tace;
soltanto mormora il Mar Nero.1
Il repertorio del Teatro Italiano di Odessa era prevalentemente belcantistico, ma a partire dal 1845 nuovi titoli apparvero in cartellone: la prima opera verdiana rappresentata nel territorio dell’Impero fu I Lombardi alla prima crociata, seguita l’anno successivo da Ernani, che suscitò un «entusiasmo indescrivibile», e per la quale «non c’era limite alle grida e agli applausi».2
A queste opere sarebbero seguite Nabucco (1847), I due Foscari (1849) e Attila (1849), che rappresentano ancora delle Prime assolute di questi titoli nel territorio russo, seguite da Macbeth, Luisa Miller già in apertura degli anni Cinquanta. Non tutte queste opere ebbero successo pari a quello di Ernani: Nabucco, ad esempio, – che pure è oggi tra i titoli più apprezzati in assoluto a livello internazionale – non piacque immediatamente, ma fu giudicata da un corrispondente locale come «rumorosa, assordante e crepitante».3 Questo giudizio offre da subito la cifra dello shock culturale generato dalle produzioni delle opere del Cigno di Busseto: la compagnia locale non disponeva, infatti, dei mezzi (cospicui) necessari ad allestimenti che rispetto alla precedente generazione richiedevano dotazioni notevolmente superiori in termini non solo di scenografie, ma soprattutto di masse vocali, visto il ruolo rilevante del coro nelle opere verdiane. In questi titoli Verdi aveva fatto propri molti elementi di ascendenza transalpina, in particolare tipici del genere francese del grand opéra alla Meyerbeer, noto per il ricorso a effetti visivi di grande impatto e mastodontiche masse corali, che lasciarono sbigottito il pubblico odessita, che pure conosceva «a memoria dalla prima all’ultima nota» «molte opere della scuola italiana».4 Si pensi al ruolo del coro “O Signore, dal tetto natio” nei Lombardi, la cui centralità rispetto all’intera vicenda sarebbe stata superata proprio dal “Va, pensiero” del Nabucco:
Analoghe impressioni di eccessiva “rumorosità” dell’orchestra e vocalità meno composta rispetto alla tradizione belcantistica che i Russi conoscevano furono suscitate da queste e altre opere verdiane sul pubblico di Pietroburgo quando la compagnia del locale Teatro Italiano cominciò a presentarle, a partire sempre dai Lombardi, nel 1845. Sin dalla loro apparizione, le opere di Verdi – accompagnate da articoli di presentazione del maestro, – ricevettero recensioni che rivelano la perplessità del pubblico di fronte a proposte nuove rispetto al ‘canone’ instaurato dai musicisti della generazione precedente (frequente è la parola “krik”, grido, in riferimento alle parti dei cantanti). A esempio, in occasione della Prima dei Lombardi, la rivista «Il contemporaneo» pubblicava l’articolo «È Pietroburgo una città della musica?»,5 nel quale il recensore si chiedeva:
Cos’altro dobbiamo aspettarci? Dopo Mozart e Gluck – Rossini; dopo Rossini – Bellini e Donizetti; dopo di loro – Verdi… Ci viene assicurato che l’umanità va sempre avanti; siamo d’accordo… ma è evidente che anche all’umanità capita a volte di “fare un passo indietro, per fare un salto più grande in avanti”. – E come se salteremo tra circa cinque anni!6
È possibile che dietro questo articolo così pessimista si celasse la penna di Aleksandr Serov, compositore russo affermatosi negli stessi anni, che fu tra i principali detrattori di Verdi, pubblicando scritti “al veleno” praticamente su ciascuna delle opere allestite nella capitale: Ernani (1846), I due Foscari e I masnadieri (1847), Nabucco (1848), Giovanna d’Arco (1849), fino a Rigoletto (1853), Trovatore (1855), Traviata (1856) e altre. L’insistenza con cui il Teatro Italiano allestiva opere del compositore tradisce quindi uno “scollamento” tra opinione pubblica e critica specializzata, che proprio nell’Ottocento inoltrato emerge in rubriche specifiche o periodici di settore.
Intanto il pubblico continua ad adorare gli artisti italiani, tra i quali Angiolina Bosio (1830-1859), celebre proprio per la sua interpretazione di Violetta nella Traviata di Verdi: lo stesso Serov era pronto ad affermare che «la signora Bosio nella parte di Violetta canta in maniera incantevole, trae da questa musica qualcosa di miracoloso».7
Dopo la morte prematura della soprano all’età di ventinove anni, il ruolo di primadonna nella compagnia d’opera italiana di Pietroburgo sarebbe stato raccolto da Caroline Barbot, che nel 1859 cantò nella capitale nel ruolo di Amelia nel Ballo in maschera, ruolo già tenuto a Roma, dove lo stesso Verdi l’aveva particolarmente apprezzata. Il suo debutto spianava la strada per il successivo ingaggio nel ruolo della protagonista femminile, Leonora, nell’opera che i Teatri Imperiali commissionarono a Verdi per tramite del tenore Enrico Tamberlick: La forza del destino.
La scelta stessa di commissionargli un’opera ad hoc – che dopo qualche difficoltà si sarebbe realizzata nel 1862 – testimonia l’affermazione di Verdi non solo sulla scena internazionale (già avviatasi sin dai tempi di Ernani), ma in particolare in Russia. Cionondimeno, Verdi continuò a essere anche qui tra uno degli artisti più discussi del proprio tempo: se il pubblico si accalcava a vedere le sue opere, e lo acclamò in occasione della Prima del 10 novembre 1862 chiamandolo sul palco più e più volte, la critica gli rivolse pesanti accuse scaturite innanzitutto dai costi dell’allestimento e dal cachet a lui destinato, che mettevano in evidenza la disparità di trattamento, da parte della Direzione, tra le compagnie d’opera italiana e russa. Mentre La forza veniva lodata da voci affezionate alla tradizione italiana come quella di Feofil Tolstoj (Rostislav, che aveva molto amato anche Rigoletto) o di altri autori anonimi che scrivevano su periodici vicini alla corte quali il francofono «Journal de St-Pétersbourg», critici come Sokal’skij, Odoevskij, Stasov, Bulgarin, anche dopo essere stati divisi in modo inconciliabile su altre questioni, sembrarono unire le forze contro Verdi per reclamare anche per la compagnia russa, all’indomani della Prima pietroburghese della Forza, i finanziamenti che avrebbero reso possibile una sede adeguata, spazio in cartellone e la giusta educazione e professionalizzazione dei cantanti. Gli anni Sessanta dell’Ottocento si rivelarono cruciali da questo punto di vista, aprendo la strada – anche se non senza difficoltà – allo sviluppo di una scuola nazionale russa.
Nel frattempo, le strade dell’opera verdiana in Russia si andavano incrociando sempre più con quella dei cantanti nazionali: se a Pietroburgo – città cosmopolita e occidentalista per vocazione – la tradizione del Teatro Italiano durò almeno sino all’eliminazione del monopolio della Corte sui teatri, a Mosca e nei teatri di regioni più remote dell’Impero si faceva largo l’uso di allestire le opere di Verdi in lingua russa, e di diffondere i numeri principali di capolavori quali Rigoletto (“La donna è mobile”), Trovatore e Traviata attraverso riduzioni per canto e pianoforte dei numeri di maggior successo in pubblicazioni degli editori Stellovskij o Jurgenson, uso che favorì quel fenomeno di popolarizzazione dell’opera che in Italia aveva trovato fortissima spinta con il Risorgimento. Questa circolazione non si fermò per tutto il XIX secolo, e i capolavori verdiani furono più forti dell’ostilità dimostrata in uno dei momenti più contrastati della vita musicale russa, tanto che all’inizio del XX secolo anche la corte russa partecipò prima al cordoglio per la morte del compositore (1901) e poi alle celebrazioni per il centenario della sua nascita (1913).
Questa affermazione rallentò senz’altro con la Rivoluzione d’Ottobre, quando Verdi fu tra gli artisti contestati dal modernismo, che riprendeva la polemica antimelodrammatica che era stata propria del “possente gruppetto”. Ridurre ad unum le sorti delle opere verdiane nel corso del periodo sovietico non è certo possibile: qui basti sottolineare come al giorno d’oggi il compositore sia divenuto, anche nella percezione russa, campione dell’essenza di italianità. A fianco dei massimi compositori di sempre – Mozart, Wagner, Musorgskij e Čajkovskij – Verdi stesso figura come personaggio che incarna la tradizione italiana nell’opera postmoderna I figli di Rosenthal (2004), commissionata dal Teatro Bol’šoj allo scrittore Vladimir Sorokin e al compositore Leonid Desjatnikov. Ma anche presso il grande pubblico il Cigno di Busseto ha saputo superare la prova del tempo: titoli quali Vespri siciliani, l’eterna Traviata, Luisa Miller, Nabucco non mancano nei teatri russi più frequentati, dove ricordano il valore assoluto del teatro nella sua capacità di rappresentazione della vita nelle sue molteplici sfaccettature.
1 Aleksandr. S. Puškin, Frammenti del viaggio di Onegin, in Evgenij Onegin, Edizione con testo russo a fronte, trad. it. e cura di Giuseppe Ghini, Mondadori, Milano 2021, pp. 354-357.
2 Nikolaj (Mykola) Varvarcev, Ukraina v rossijsko-ital’janskich obščestvennych svjazjach [L’Ucraina nelle relazioni sociali italo-russe], Kiev, Naukova dumka, 1986, p. 130.
3 R., Zametki i vesti [Note e notizie], «Odesskij vestnik» [Il messaggero odessita], n. 45, 4 giugno 1847, p. 237, cit. in: Natalija Vladimirovna Ostrouchova, Odesskij opernyj teatr v istoričeskom prostranstve i vremeni [Il teatro d’opera di Odessa nello spazio e nel tempo storico], v 3-ch knigach, Odessa, Astroprint 2015, p. 205
4 «Odesskij vestnik» [Il messaggero odessita], 4 gennaio 1850, cit. in: Ostrouchova, Odesskij opernyj teatr…, cit., p. 206.
5 in: Sovremennye zametki [Note di attualità], «Sovremennik» [Il contemporaneo], i/1, 1847, p. 75.
6 in: Sovremennye zametki [Note di attualità], «Sovremennik» [Il contemporaneo], i/1, 1847, p. 75.
7 «[…] г-жа Бозио в роли Виолетты поет восхитительно, делает из этой музыки чудеса». Aleksandr Nikolaevič Serov, La Traviata, Opera Verdi [La Traviata, opera di Verdi], «Muzykalnyj i teatral’nyj vestnik» [Corriere musicale e teatrale], n. 45, 11 novembre 1856.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Anna Giust, Cercando l’opera russa. La formazione di una coscienza nazionale nel repertorio operistico del Settecento, Feltrinelli - Amici della Scala, Milano 2014.
Anna Leonidovna Porfir’eva, Ital’janskaja opera v Odesse: 1809-1865. Južnaja versija Severnoj Pal’miry [L’opera italiana a Odessa: 1809-1865. Versione meridionale della Palmira del Nord], in Muzykal’nyj Peterburg, XIX vek, Stranicy biografii [La Pietroburgo musicale, XIX secolo, Pagine biografiche], tom [volume] 12, a cura di Natalija Ogarkova, Kompozitor, Sankt-Peterburg, 2013 pp. 168-200.
Larisa V. Kirillina, Una storia d’amore e gelosia: Giuseppe Verdi e la Russia, in Italia-Russia: quattro secoli di musica, Ambasciata d’Italia a Mosca e Conservatorio Statale P. I. Čajkovskij, Mosca 2017, pp. 233-264.
La forza e il destino: la fortuna di Verdi in Russia, mostra a cura di M. R. Boccuni, catalogo a cura di M. R. Boccuni e A. Gianotti, Compositori, Bologna 2001.
Rosamund Bartlett, Verdi and the Revolution in Russian Theatre, in Verdi Reception, ed. By Lorenzo Frassà and Michela Niccolai, Brepols, Turnhout 2013, pp. 157-172.