Verdi è sempre stato un artista attento e sensibile alla cultura europea del suo tempo. Questo è evidente anzitutto se si pensa alla qualità e alla varietà delle fonti letterarie da cui egli ha preso spunto per gli argomenti delle sue opere; ma non solo: il suo carattere “progressista” si riflette appieno anche nel suo pensiero drammaturgico-musicale.
Infatti, a fianco del melodramma italiano primo-ottocentesco e del grand opéra di Meyerbeer, l’influsso in assoluto più determinante sulla poetica verdiana è, senza dubbio, il teatro di Shakespeare, anche filtrato attraverso la poetica teatrale di Victor Hugo.
Alcuni presupposti estetici presenti nell’opera del “bardo dell’Avon” e in quella del drammaturgo francese costituiscono, infatti, la base della poetica verdiana.
Il nucleo centrale dell’estetica verdiana è il concetto di “vero”, inteso in senso shakespeariano, ossia la rappresentazione verosimile dell’uomo in tutte le sue sfaccettature, risultanti dall’unione di bene e male, positivo e negativo, bello e brutto. Proprio questo principio è, al contempo, uno dei fondamenti della poetica teatrale di Victor Hugo, incentrata, appunto, sul concetto di “brutto”. In ambito estetico, il termine “brutto” indica una serie di entità negative che tuttavia possono assumere una funzione artistica positiva; nella riflessione filosofica sull’arte, soprattutto di area tedesca, il brutto riveste un’importanza sempre maggiore già a partire dal secondo Settecento con gli scritti di Lessing, passando per i fratelli Schlegel, per Hegel sino a giungere a Karl Rosenkranz, allievo di Hegel, che col suo testo del 1853 intitolato, appunto, Estetica del brutto, fornisce la più compiuta e sistematica teorizzazione filosofica del problema. Nel primo Ottocento, dunque, il “brutto” è un importante fattore estetico che influisce su tutte le arti, compresa la musica: basti pensare alla Symphonie fantastique di Berlioz e ad altre composizioni di Schumann e Liszt in cui vengono introdotti elementi volgari e triviali.
Ma in campo drammatico e letterario, il vero e proprio manifesto dell’estetica del brutto, nonché del teatro romantico tutto, è la prefazione al Cromwell stilata da Victor Hugo nel 1827.
Secondo Hugo, il dramma dev’essere una rappresentazione della realtà in tutta la sua complessità: quindi deve comprendere anche il brutto, il triviale, il volgare, considerati indispensabili per giungere alla verità drammatica.
Così scrive esplicitamente Hugo:
Tutto nella creazione non è umanamente bello, il brutto vi esiste accanto al bello, il deforme accanto al grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male col bene, l’ombra con la luce […] Nelle arti, le cose sono belle o brutte soltanto a seconda di come sono eseguite. Una cosa deforme, orribile, repellente, trasportata con verità e poesia nel dominio dell’arte, diverrà bella, ammirevole, sublime, senza nulla perdere per questo della sua mostruosità […] Dalla unione feconda del tipo grottesco col tipo sublime nasce il genio moderno.1
E dal momento che "la realtà scaturisce dalla combinazione assolutamente naturale di due tipi, il sublime e il grottesco […] è ovvio come l’arbitraria distinzione dei generi crolli rapidamente davanti alla ragione e al gusto".2
Si tratta, in fondo, di una poetica teatrale ricavata dal dramma di Shakespeare, considerato da Hugo la "vetta poetica dei tempi moderni […] che fonde entro un modernissimo soffio il grottesco e il sublime, il terribile e il buffonesco, la tragedia e la commedia";3 non è un caso che il suo nome ricorra in tutte le riflessioni estetiche ottocentesche sul brutto.
Le teorie drammatiche enunciate da Hugo nella prefazione al Cromwell trovano subito una prima realizzazione pratica nei primi anni Trenta del secolo: sia in alcuni drammi dello stesso autore, come Hernani, Le roi s’amuse e Lucrèce Borgia, sia in alcune opere in musica che risentono dell’influsso più o meno diretto del drammaturgo francese quali Robert le diable di Meyerbeer e Lucrezia Borgia di Donizetti, tratta dall’omonimo dramma vittorughiano di qualche mese precedente.
Ma in che modo il tema del brutto trova posto nei drammi verdiani? E con quali mezzi musicali Verdi realizza concretamente sulla scena la categoria estetica del brutto e del grottesco?
L’elemento del brutto può declinarsi in modi diversi all’interno della produzione verdiana: si può trovare un brutto sul piano contenutistico, con la presenza di temi immorali, situazioni particolarmente brutali o degradanti; un brutto scenografico, con ambientazioni orride e oggetti considerati triviali o indecorosi; l’esigenza di rappresentazione del reale, poi, può reclamare perfino un brutto “musicale”, con un canto declamato, piegato alle ragioni del dramma, come quello richiesto da Verdi per il personaggio di Lady Macbeth; per quanto concerne i personaggi, invece, può sussistere un brutto fisico, come la deformità di Rigoletto o la malattia di Violetta nella Traviata; a prevalere è soprattutto un brutto sociale e morale: le opere verdiane sono popolate da figure lacerate da conflitti interiori, secondo un’altra lezione trasmessa dal teatro di Victor Hugo: personaggi ambigui, emarginati, oppressi, perseguitati, disperati, travolti dalle passioni o semplicemente malvagi e perfidi.
Ma l’estetica del brutto agisce anche a un livello ben più profondo, poiché pervade tutta la concezione della costruzione drammatica: il brutto, infatti, non è mai fine a sé stesso in Verdi, ma è sempre funzionale all’azione e alla verità drammatica.
L’opera forse più emblematica in tal senso è il Rigoletto, tratto, com’è noto, da Le roi s’amuse di Hugo. Il dramma di parola fu rappresentato nel 1832 alla Comédie Française, generando un enorme scandalo; il testo venne in seguito pubblicato, ma ne fu proibita ogni rappresentazione scenica fino al tardo Ottocento. Lo sconcerto dei critici era dovuto all’elemento comico e triviale che causava "disgusto e disattenzione" e soprattutto alla commistione di buffonesco e sublime che "gettò il pubblico in una penosa confusione"4. In più, a ricoprire il ruolo nobile e solenne del Padre non era, come di consueto, il sovrano, bensì il buffone di corte: questo suscitò ulteriore riprovazione da parte della stampa francese.
Verdi, d’altra parte, si mostra ben consapevole della grandezza e del valore del soggetto, di cui viene a conoscenza intorno al 1849 durante un soggiorno parigino. L’anno successivo, infatti, in una lettera del 28 aprile suggerisce al poeta Francesco Maria Piave di ricavare un libretto dal dramma di Hugo, scrivendo: "Il soggetto è grande immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il soggetto è Le roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet".5 In un’altra lettera a Piave di dieci giorni successiva, Verdi mostra appieno tutto il suo entusiasmo per il dramma di Hugo: "Oh Le roi s’amuse è il più grande soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!! Altro che Ernani!!".6 Il compositore, dunque, è pienamente conscio delle potenzialità insite sia nella figura del protagonista, sia nell’intreccio drammatico, come si evince da un’altra missiva inviata al suo librettista:
Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande al sommo grande … Tutto il soggetto sta in quella maledizione.7
Ed è proprio la figura del buffone che deve aver stimolato più di tutto Verdi; il protagonista dell’opera, infatti, si può considerare come l’autentica incarnazione del grottesco di Hugo, emblema di quella lacerazione e di quei contrari su cui si basa sia la sua poetica teatrale sia il teatro shakespeariano. Quella di Rigoletto, difatti, è una doppia natura: egli è al contempo gobbo deforme e padre amorevole, buffone di corte ed eroe tragico; come ebbe a dire Hugo, Tribolet è portatore di una deformità fisica che tuttavia viene purificata dal suo essere padre. Lo stesso Verdi ha affermato in proposito: "Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore".8 Il soggetto teatrale del Rigoletto, dunque, si rivela come manifestazione concreta delle teorie drammatiche esposte da Hugo nella sua prefazione al Cromwell.
Da quel celebre manifesto artistico stilato dal drammaturgo francese, Verdi ricava sostanzialmente tre postulati estetici: il dramma come specchio della realtà, la valorizzazione del brutto e del grottesco, e la commistione di stili e di generi. Ed è proprio l’estetica di Victor Hugo – insieme al teatro shakespeariano – che stimola il compositore ad attuare una poetica del contrasto, basata sull’accostamento improvviso e brusco di registri stilistici opposti; il grottesco, il triviale e il comico sono impiegati da Verdi in modo funzionale, per far risaltare al meglio gli aspetti più atroci della tragedia: è soprattutto in questo modo che il musicista utilizza il brutto e realizza quella fruttuosa commistione di serio e tragico dando vita al moderno dramma romantico propugnato da Hugo.
Nel Rigoletto tale commistione è evidente, in primo luogo, sul piano della vicenda drammatica: basti pensare alla compresenza di toni tragici elevati, ad esempio nel momento della maledizione, e di elementi triviali, come l’utilizzo scenico del sacco al termine dell’opera, all’interno del quale si ritroverà il corpo morente di Gilda, figlia adorata di Rigoletto. Il contrasto è poi un fattore insito sia nello stesso personaggio protagonista, sia nel dispiegarsi dell’intreccio narrativo: infatti, se nell’introduzione dell’opera Rigoletto è giullare e personaggio corruttore posto in secondo piano rispetto al Duca, man mano che il dramma procede, Rigoletto diviene non soltanto protagonista ma anche padre affettuoso e figura moralmente più nobile del Duca, capovolgendo così la consueta costellazione dei personaggi del melodramma ottocentesco, che prevedeva l’eroe positivo identificato nel tenore e il tiranno negativo nel baritono.
Ma è soprattutto con la musica che Verdi crea nel modo più efficace e immediatamente percepibile la poetica del contrasto, che pervade l’intera opera, fin dal principio.
Un primo fortissimo attrito si avverte subito fra il preludio orchestrale, da eseguirsi a sipario chiuso, e l’introduzione dell’opera: il primo brano, minaccioso e in tonalità minore, contiene il tema musicale della maledizione; il secondo si avvia col linguaggio musicale tipico dell’opera comica; all’alzarsi del sipario, infatti, si vede una grande sala del palazzo ducale, rappresentata nel pieno della festa, con in fondo dame e cavalieri intenti a danzare e a divertirsi. Il contrasto non danneggia l’insieme drammatico, ma anzi lo rafforza, rendendolo più articolato e interessante; la contrapposizione si avverte anche a livello timbrico: si passa dai toni cupi e gravi dell’orchestra, con timpani e ottoni, alla musica da ballo suonata da una banda interna, posizionata dietro le quinte e avvertita da lontano. La musica con cui si apre l’introduzione è stata spesso criticata per la sua volgarità; una critica pienamente fondata, perché questa musica deve essere volgare: essa deve raffigurare il clima di corruzione e di volgarità presente a corte durante la festa, che nelle intenzioni di Hugo doveva avere un carattere quasi orgiastico; Verdi crea dunque un primo violento contrasto tra il preludio minaccioso e la scrosciante volgarità della musica festosa:
È questa un’idea drammatico-musicale che Verdi ha forse tratto dall’analogo inizio della Lucrezia Borgia donizettiana: anch’essa è aperta da un cupo preludio da cui poi si viene catapultati nell’atmosfera leggera di un’aristocratica festa notturna:
L’ accostamento con cui inizia il Rigoletto, quindi, genera un turbamento nello spettatore e ha un effetto duplice: da un lato, il preludio getta un’ombra turpe sulla dissolutezza della festa; dall’altro, gli "scrosci di risa" e la baldoria rendono ancor più amaro il prosieguo della vicenda.
Il linguaggio musicale comico fa ritorno alla fine dell’atto primo nel coro dei cortigiani. La scena è ambientata di notte, vicino la casa di Rigoletto: Ceprano, Borsa, Marullo e altri nobiluomini hanno intenzione di rapire Gilda, da loro creduta amante invece che figlia del buffone; sul piano drammatico, il retrogusto tragicomico è dato dal fatto che proprio Rigoletto, inconsapevolmente, li aiuta nell’impresa: il gobbo, ingannato, crede di partecipare al rapimento della sposa di Ceprano, il cui palazzo si trova accanto al suo; egli dunque, bendato dai cortigiani, finisce per reggere la scala a coloro che penetrano nella sua casa per rapirgli la figlia.
Il brano corale ha un carattere inequivocabilmente comico e burlesco, quasi come fosse la realizzazione musicale di una risata a bassa voce; la musica non dà conto in alcun modo della tragedia che si sta consumando, ma si limita a sonorizzare quello che, dal punto di vista dei cortigiani, è soltanto uno scherzo; proprio questo carattere neutro e distaccato della musica accresce fortemente nello spettatore la sensazione di angoscia, provocata dalla tragicità del momento. Ancora bendato, Rigoletto non vede né sente Gilda che urla da lontano chiedendogli aiuto; quando s’accorge poi di essere stato ingannato, la musica muta radicalmente per descrivere, con un graduale ma impetuoso accrescimento di tensione, tutta la sua agitazione e il suo dolore dinanzi al rapimento. Lungo tutto il febbrile crescendo orchestrale, il gobbo si trova in uno stato di choc; la didascalia di Verdi è ben precisa al proposito: dopo aver visto la porta aperta ed essere entrato in casa per cercare Giovanna, la custode di Gilda, Rigoletto "la fissa con stupore, si strappa i capelli senza poter gridare" e, soltanto alla fine, "dopo molti sforzi" prorompono le sue ultime parole che pongono fine all’atto: "Ah!... la maledizione!"
Tragico e burlesco si confondono in altri momenti dell’opera: negli interventi umoristici e grotteschi di Sparafucile, nel comico dissimulato di Rigoletto quando, al secondo atto a palazzo, canticchia in presenza dei cortigiani, cercando di fingere indifferenza: un momento in cui la musica comunica in maniera inequivocabile tutta l’amarezza della situazione.
La commistione di comico e tragico trova coronamento in uno dei brani in assoluto più celebri e riusciti del teatro verdiano: il Quartetto dell’ultimo atto. La scena è divisa in due: da un lato l’interno dell’osteria col Duca e Maddalena, dall’altro l’esterno con Gilda e Rigoletto che guardano dentro l’osteria attraverso una fessura nel muro. I due giovani all’interno stanno amoreggiando, mentre fuori Rigoletto reprime il furore e Gilda si mostra incredula e afflitta. Il quartetto diviene così la giustapposizione di due duetti simultanei: come ha notato il musicologo Piero Weiss, la novità del brano sta nel fatto che due personaggi "sono in preda alla disperazione mentre gli altri due stan facendo baldoria";9 comico e tragico coesistono insieme, in due azioni diverse, agíte allo stesso tempo, sulla stessa scena.
Soprattutto nell’ultima parte del brano, quando ormai tutti i versi sono già stati intonati una prima volta, Verdi utilizza lo stile vocale e il tessuto orchestrale per differenziare in modo cristallino le emozioni dei quattro personaggi: Maddalena ride divertita con le sue semicrome, Gilda singhiozza insieme agli archi, il Duca intesse melodie seducenti e Rigoletto tende a sillabare contenendo a stento la rabbia:
Infine, il brano più popolare dell’opera, "La donna è mobile", può essere considerato come autentica materializzazione dell’estetica di Hugo; come per la musica che apre l’introduzione del Rigoletto, anche questo brano è stato criticato per il suo carattere volgare: si tratta di una triviale canzonaccia da osteria, sfruttata da Verdi, in modo raffinatissimo, a precisi scopi drammaturgici; come ha scritto lo studioso Saverio Lamacchia, la canzone del Duca è "stilisticamente victorughiana, e si direbbe prima ancora shakespeariana".10 Com’è noto, il brano è esposto tre volte nel corso dell’opera: la prima volta, per esteso, quando il Duca giunge all’osteria
la seconda volta viene accennata, con un maggior effetto comico, nel momento in cui il giovane libertino, ebbro dopo aver passato la sera con Maddalena, si stende sul letto in procinto di addormentarsi: la melodia, infatti, viene lasciata vocalmente sospesa ed è conclusa grazie agli interventi del clarinetto
La terza e ultima esposizione della canzone rappresenta un grandissimo coup de théâtre nella produzione verdiana: sul finire del dramma, Rigoletto si trova da solo in scena col sacco, al cui interno crede vi sia il cadavere del Duca; proprio nel momento in cui lo sta per gettare nel fiume, ecco che si sente, da lontano, la voce del sovrano che canta ancora quel brano volgare e di scherno contro le donne (inclusa peraltro anche la figlia Gilda). All’inizio Rigoletto crede si tratti soltanto di un’illusione, ma poi comprende che il Duca è vivo e vegeto, e che vaga in lontananza. La forza della scena è ancor più accresciuta dal fatto che il tenore conclude la sua canzone, per la prima e unica volta, con un lungo acuto, inserito da Verdi soltanto in questo momento del dramma e che soltanto qui dovrebbe essere eseguito, diversamente da quanto talvolta accade nei nostri teatri odierni.
Il contrasto non potrebbe essere più forte: trivialità e atrocità sono del tutto compenetrati e il grottesco trova qui il suo apice. Subito dopo, Rigoletto aprirà il sacco per scoprire, con orrore, che il corpo lì contenuto è quello dell’amata figlia morente: nell’ultima scena dell’opera, l’elemento comico è totalmente al servizio del tragico, è funzionale nel rendere ancor più amara la tragedia del padre-buffone:
Rigoletto andò in scena alla Fenice di Venezia l’11 marzo del 1851. La gran parte dei critici sembrò non apprezzare alcune scelte artistiche: fra questi, il recensore della "Gazzetta uffiziale di Venezia", che scrisse:
Si sente qualche cosa come dell’opera semiseria; [l’opera] comincia con una canzone a ballo, ha per protagonista un gobbo; muove da un festino e si termina, non con troppa educazione, in una casa senza nome, dove si vende l’amore, e si contratta sulle vite degli uomini; è, insomma Le roi s’amuse di Vittor Hugo, netto e schietto, con tutti i suoi peccati. Il maestro, o il poeta […] cercarono il bello ideale nel difforme, nell’orrido, mirarono all’effetto, non per le usate vie della compassione e del terrore, ma dello strazio dell’anima e del raccapriccio. In coscienza non possiamo lodar questi gusti.11
Se i critici non potevano "lodare" quei gusti, fin da subito il Rigoletto ha riscontrato un grande successo di pubblico. Lo stesso autore era ben cosciente di aver prodotto qualcosa di grande e di nuovo: per lui quello era un soggetto rivoluzionario, il migliore da lui posto in musica fino a quel momento. In definitiva, Verdi era consapevole che, sulla scia dei suoi maestri Shakespeare e Hugo, col Rigoletto aveva dato vita a un nuovo tipo di dramma moderno, cambiando per sempre la storia dell’opera italiana.
1 Victor Hugo, Cromwell, in Tutto il teatro, vol. I, trad. di Corrado Pavolini, Milano, Rizzoli, 1962, pp. 25, 26-27.
2 Ibid., pp. 40, 43.
3 Ibid., p. 35.
4 Étienne Béquet, sul numero del 24 novembre 1832 del "Journal des Débats", citato in Piero Weiss, Verdi e la fusione dei generi, in La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 75-92: 89.
5 Marcello Conati, Rigoletto. Un’analisi drammatico-musicale, Venezia, Marsilio, 1992, p. 17.
6 Ibid., p. 18.
7 Ibid., p. 21.
8 Julian Budden, Le opere di Verdi, vol. I (Da Oberto a Rigoletto), Torino, EDT, 1985, p. 524.
9 P. Weiss, Verdi e la fusione dei generi cit., p. 91.
10 Saverio Lamacchia, Il dissoluto impunito, ossia l’acuto della "Donna è mobile": la catastrofe da “Le roi s’amuse” a “Rigoletto”, in Die Musik des Mörders - Les romantiques et l’opéra - I romantici e l’opera, a cura di Camillo Faverzani, Lucca, LIM, 2018, pp. 171-182: 178.
11 "Gazzetta uffiziale di Venezia", 12 marzo 1851 (p. 233), citato in P. Weiss, Verdi e la fusione dei generi cit., p. 92.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Victor Hugo, Cromwell, in Tutto il teatro, vol. I, trad. di Corrado Pavolini, Milano, Rizzoli, 1962.
Piero Weiss, Verdi e la fusione dei generi, in La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 75-92.
Saverio Lamacchia, Il dissoluto impunito, ossia l’acuto della "Donna è mobile": la catastrofe da “Le roi s’amuse” a “Rigoletto”, in Die Musik des Mörders - Les romantiques et l’opéra - I romantici e l’opera, a cura di Camillo Faverzani, Lucca, LIM, 2018, pp. 171-182.
Marcello Conati, Rigoletto. Un’analisi drammatico-musicale, Venezia, Marsilio, 1992.
Julian Budden, Le opere di Verdi, vol. I (Da Oberto a Rigoletto), Torino, EDT, 1985.
Raffaele Mellace, Con moltissima passione: ritratto di Giuseppe Verdi, Roma, Carocci, 2013.